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Il fragile viaggio di una famiglia in ostaggio

Venezia 75 La coppia di cineasti iraniani Soheila Javaheri e Razi Mohebi autori di "Una casa sulle nuvole" in programma alla MOstra il 2 settembre

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 1 settembre 2018

Vivere dieci anni da rifugiati politici in Italia. Che cosa vuol dire per il corpo per la mente e per il cuore di chi si trova a respirare ogni giorno questa esperienza? E cosa accade se la si vive in continuo dialogo col cinema, come succede alla coppia di cineasti Soheila Javaheri e Razi Mohebi?
Comincia dal buio e dallo straniante irrompere di una notifica di sfratto, Una casa sulle nuvole – l’ultimo lavoro della regista di origini iraniane – angosciante scricchiolare di un ulteriore tassello tra i fondamentali dell’esistenza in vite già oppresse dai labirinti stringenti della burocrazia, da uffici statali e controlli, dall’ossessione dei documenti, dall’orrenda imposizione a non essere più e dalla paura di non essere ancora. In questo assommarsi di carenze che impone ai due filmmaker e al loro figlio undicenne una costante ridefinizione di un equilibrio già di per sé continuamente minato, tra alberi ischeletriti, inverni e abbracci fitti e coesi, il film sembrerebbe prendere la via del viaggio verso l’Iran, il luogo dove Soheila Javaheri ha conosciuto il marito, esule afghano e dove Sepanta dovrebbe ricongiungersi per la prima volta con i nonni.
Se non che, complici le traiettorie casuali o meno della vita, un evento esterno impedirà ai loro desideri di prendere la via cercata, rendendo ancora più costringenti quegli elementi di instabilità che impregnano i loro tracciati. Allora sarà Soheila Javaheri, nel cuore le opere di Varda e Olmi, uno sguardo carico di effusiva umana dolcezza, ad assecondare, dalla pelle alla macchina da presa, il fluire imprevedibile delle cose, le infinite cangianti tangenze tra il documentario e la vita.
Come hai conosciuto Razi e come siete arrivati in Italia?
Era subito dopo l’11 settembre. Il nostro primo incontro è avvenuto a Teheran durante una conferenza con il regista francese Christophe de Ponfilly. A quei tempi lui studiava cinema all’università e come i suoi amici si opponeva agli organizzatori della conferenza che sostenevano la linea dei mojaheddin del nord. La loro energia mi ha colpito, ho provato a conoscerli meglio e così è iniziata la nostra relazione. Poi nel 2007 siamo stati invitati a un festival a Trento, e mentre eravamo in Italia il nostro ufficio a Kabul è stato sequestrato. All’inizio pensavamo di restare qui per un breve periodo e ritornare in Afghanistan quando la situazione fosse stata più tranquilla, ma non è successo.
Qual era il progetto iniziale del film?
Oltre alla dimensione familiare che prevedeva il primo incontro di nostro figlio con i nonni, volevamo mettere sotto i riflettori il vissuto di bambini afghani figli di rifugiati in Iran, con i quali avevo lavorato anni prima nelle scuole clandestine. Questi bambini, pur essendo nati e cresciuti lì, non avendo la cittadinanza, non hanno diritto ad andare a scuola, né ai servizi sanitari e sono tenuti ai margini di una vita normale.
«Una casa sulle nuvole» e «Cittadini del nulla» (firmato con Razi Mohebi, ndr) cominciano entrambi con uno sfratto. Data la materia fortemente biografica si tratta di una esperienza da voi realmente vissuta…
È una nostra esperienza, Una casa sulle nuvole è uno specchio della nostra vita. Ma dello sfratto si può dare anche una interpretazione simbolica, nel senso che tu abiti in un posto ma non hai i requisiti per essere lì, per restare. Questa è una costante del nostro percorso e un problema comune a immigrati e rifugiati. Chi affitta spesso dice di no, perché c’è bisogno di una certa sicurezza, qualcosa che posso anche capire, ma non è solo questo. Tutti ci chiedono requisiti economici che noi, lavorando a partita Iva, non possiamo assolutamente dare. Al di là di questi elementi, in tutti i nostri film c’è veramente un desiderio profondo di «casa».
Come sappiamo, il film ha preso poi una direzione completamente altra da quella prevista. Vorremmo chiederti di analizzare quel momento in cui, pur in un frangente estremamente drammatico, ti sei come sdoppiata e mentre da un lato hai continuato a darti da fare per cercare di risolvere la situazione legata alla perdita dei documenti e delle attrezzature, dall’altro hai deciso che dovevi riprendere quello che stava accadendo.
Subito dopo il furto ho sentito che dovevo girare e ho iniziato a farlo con il cellulare. Allora mio figlio ha detto, non riprendere, per favore. Ho risposto, è l’unica via. Sia perché questo è il nostro lavoro e sia perché era anche un modo per pensare: è un film, non siamo noi. Stavamo per fare un viaggio importante, lo avevamo preparato perché fosse il più ricco e significativo possibile. Con il furto ognuno a suo modo era traumatizzato. Così quando ho cominciato a vedere quella realtà che ci feriva così tanto attraverso lo schermo del cellulare e poi tramite la camera, quando ci ha raggiunto l’operatore, è stato come se si fosse ammorbidita, se il nostro trauma avesse trovato sollievo. È quello che fa il cinema, sa essere una cura.
Nello stesso tempo, c’è un momento in cui tuo figlio dice che si può capire il vissuto di un altro solo se ci si mette nei suoi panni. Facendo riferimento alla dimensione politica del film – peraltro ci sono immagini televisive dei respingimenti operati da Trump negli Usa – e a quanto sta avvenendo ora in Italia, non credi che il vostro agire il documentario in prima persona, attraverso la vostra pelle, sia un fondamentale invito alla pratica della immedesimazione, essenziale di questi tempi?
Ne parliamo sempre con Razi, quello che stiamo vivendo, anche a livello linguistico, è tragico, brutale. Per i morti in mare di ieri e di oggi non ci sono parole. Quella a cui assistiamo non è la banalità del male ma l’istituzionalizzazione del male. Perché sono figure di importanza istituzionale ad abbassare il livello del discorso fino a questo punto. Senza dire che non bisogna considerare solo l’odio che spargono verso gli immigrati, ma anche l’odio che fomentano in reazione. Tutto questo in un clima di individualismo esasperato, di cui siamo tutti responsabili. Sembra banale, ma bisogna ritrovare le parole del dialogo, lavorare insieme socialmente. E per quanto riguarda l’essenza del documentario, credo sia necessario andare oltre la narrazione triangolare che sa cosa è il bene e cosa il male, che ha due punti fissi e un terzo da raggiungere, per approdare a una narrazione che io chiamo «collinare», un continuo dolce imprevedibile divenire, in cui chi racconta è coinvolto interamente in prima persona.
In «Cittadini del nulla», attraverso il cinema avete raccontato identità assediate, l’impatto tremendo dell’arrivo in Italia. E il pensiero va a Pirandello…
È quello che abbiamo provato, all’inizio un rifugiato politico è considerato come un soggetto fragile. L’assistente sociale ha detto a Razi: devi dimenticare quello che eri, che facevi il regista. Perché si presume che un rifugiato torni a una sorta di età zero.
Di contro a questo muro della burocrazia si percepisce una grande rete di solidarietà di cui voi fate parte, è così?
Se dovessi dire quello che abbiamo guadagnato in Italia, sicuramente sono gli amici. Molti di loro hanno partecipato a un corso di cinema digitale che da otto anni teniamo a Trento presso la facoltà di sociologia. Cittadini del nulla è stato fatto al 90% con gli studenti che avevano seguito il corso quell’anno. Siccome avere finanziamenti è difficile, la dimensione sociale in cui facciamo i film è importantissima.
A proposito di finanziamenti, a Vicenza il Working Title Film Festival ha proposto un incontro tra l’altro sull’anomalia della legge sul cinema relativamente agli immigrati.
La legge è stata fatta sul modello di quella francese, quasi un copia e incolla, soltanto che in un articolo, il quinto, dove c’era «residenza» hanno tradotto «cittadinanza». In questo modo non è solo la persona a essere profuga ma i film stessi che facciamo. All’epoca, quando è stata fatta la legge, si è costituito un collettivo di studio per analizzarla e Franceschini, che era più aperto verso gli immigrati, ci ha incontrati. Resta che non dovrebbero esserci più barriere nazionaliste a definire chi siamo e le nostre opere. Le uniche possibilità per i migranti sono rappresentate dalla Cineteca di Bologna e dall’Archivio delle Memorie Migranti di Roma con il direttore Alessandro Triulzi, che fanno un lavoro eccezionale.
Soheila, questo oltre che un film politico è un film d’amore? Pensiamo a quella macchinina che viaggia con voi di casa in casa.
Spero che lo sia. Sì quella macchinina gialla, che rimanda alla nostra «casa macchina», ma che è la macchinina di nostro figlio.
Per concludere le chiediamo cosa significhi che il film inizi e finisca con un taglio di capelli: allora Razi, che finora ha ascoltato in silenzio la nostra conversazione, interviene… Tagliare i capelli significa cambiare, togliere tutto quello che non serve al viso e interrogarsi sui propri veri bisogni. Abbiamo chiesto la cittadinanza ma un parte di famiglia è stata presa e un’altra no (Soheila e il bambino sì, lui ancora no) e tutti i nostri sforzi per creare un’unione hanno subito un attacco che, come vediamo in America, si ripercuoterà psicologicamente di generazione in generazione. Questo film è un grido di separazione.

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