«Il mio nome è Sami, ho 45 anni. Sono arrivato in Italia quando è scoppiata la guerra nella ex-Jugoslavia. Facevo il pugile. Poi sono stato guardia del corpo dell’ex presidente. Quando è scoppiata la guerra eravamo all’estero, con il presidente, e siamo tornati di corsa. Mi hanno arrestato. Pesavo 80 kg, dopo tre mesi di detenzione sono arrivato a pesarne 46. Hanno ammazzato tutti i membri della mia famiglia, per torturare me. Trenta persone in tutto. Mamma, papà, fratelli, cugini, nipoti. Tutti. Ho subito ogni genere di tortura in carcere, fisica e psicologica. Adesso qui in Italia sto lavorando come buttafuori nelle discoteche, ma mi piacerebbe fare il cuoco. Ho ottenuto il riconoscimento di rifugiato politico, nonostante fosse difficile reperire i documenti che testimoniassero la mia storia. Qui in Italia sto bene, anche se qualche volta mi sveglio all’improvviso di notte e non mi ricordo più dove sono». «Io mi chiamo Alain, vengo dal Camerun, ero un fotografo. Una mattina sono uscito di casa, ho salutato mia moglie e i nostri due bambini per andare nel mio studio, a stampare alcune fotografie. Lungo la strada ho incontrato un mio zio che mi ha detto che ero in pericolo a causa delle mie foto, e mi ha detto di scappare subito all’estero. Non gli ho creduto, ma quando sono arrivato allo studio era tutto sottosopra. Ho capito che dovevo andare via per salvare soprattutto la mia famiglia. In Italia mi piacerebbe riprendere quello che era il mio lavoro in Camerun. Ma non ho i soldi per affittare una stanza, figuriamoci per una macchina fotografica. Lavoro ogni tanto in un supermercato fuori città, come facchino. Finora ancora non mi hanno pagato, mi auguro che nell’immediato futuro lo facciano. Ho incontrato degli amici del mio paese, che sono in Italia da più tempo di me e mi stanno aiutando, per fortuna. Ho ottenuto la protezione internazionale, così posso restare in Italia per cinque anni. La mia preoccupazione più grande sono i bambini e mia moglie. Ho paura che possa accadergli qualcosa di brutto, senza di me». Nass invece viene dal Senegal. È una bella ragazza dagli occhi limpidi e luminosi, e un sorriso aperto e sincero. Nel suo paese seguiva un corso per diventare sarta. Il padre e il fratello sono stati uccisi perché partecipavano ad attività contro il governo. Un suo zio ha pensato che fosse meglio per lei scappare via. Adesso che è in Italia, segue un corso di Italiano per imparare bene la lingua, per poter magari frequentare un corso per diventare sarta, qui. Nass vorrebbe, un giorno, poter tornare nel suo paese. Kissy è il nome di una meravigliosa donna di 33 anni. Lei ha un figlio in Congo, di 5 anni. Grazie all’aiuto del Cir (Consiglio italiano rifugiati) e della Caritas sta cercando di ottenere il ricongiungimento per far venire il figlio in Italia, ma i tempi della burocrazia sono estremamente lentie difficili. In Italia sta seguendo un laboratorio di ceramiche e un laboratorio teatrale. Kissy ora è contenta, riesce a divertirsi anche, con gli altri ragazzi che hanno vissuto come lei la stessa drammatica esperienza. «Mi chiamo Baba, sono un artista, in Guinea dipingevo quadri e davo lezioni di pittura e disegno ai bambini del mio villaggio. Mio fratello a causa del suo impegno politico contro il governo è dovuto scappare. Io stesso sono stato arrestato. Legato e bendato, mi hanno condotto insieme ad altri in un posto fuori città, e lì ho subito ogni genere di violenza fisica e sessuale. Ho ancora paura di aver contratto qualche virus. Quando ho creduto che la fine fosse ormai vicina, uno dei carcerieri mi ha riconosciuto. Era un vecchio amico di mio padre. Di nascosto mi ha portato via dalla prigione, mi ha curato per rimettermi in piedi. Ero stremato e gravemente ferito. Dopo un paio di settimane ha detto che quel posto non era più sicuro e dovevamo andare via. Mi ha dato il passaporto di suo figlio, a cui assomigliavo, e un po’ di soldi. All’aeroporto mi ha fatto imbarcare per Milano. Ho incontrato una signora molto gentile che parlava un po’ francese. Ha ascoltato la mia storia e mi ha consigliato di andare dalla polizia. Adesso vivo in un centro dello Sprar, fuori Roma». Queste storie sono state raccolte al Cir. Sono solo alcune tra le tante. Basta raccoglierle per raccontarle.