Il flusso lirico ininterrotto di Gloria Gervitz, 44 anni immersa in un solo poema
Poesia messicana «Migrazioni», da Fili d’aquilone
Poesia messicana «Migrazioni», da Fili d’aquilone
I versi di un «poema organico» non sono una mera poesia né sono una antologia poetica: scorrono come un flusso continuo sulle pagine, senza punti né virgole né maiuscole, perché chiedono al poeta «di togliere quelle dighe». Migrazioni Poema 1976-2020 di Gloria Gervitz (Edizioni Fili d’Aquilone, a cura di Stefano Tedeschi, pp. 290, € 15,00) è fatto di una materia compattata, «un essere vivente – dice la scrittrice, che cambia attraverso le letture e le esperienze di vita dell’autore e del lettore». Vero e proprio progetto di vita, avviato nel 1976 («il poema ha conosciuto la siccità, lunghi, lunghissimi periodi senza scrivere») Migrazioni era stato pubblicato in versioni parziali – una prima parte era uscita nel 1979 con il titolo Shajarit, la preghiera del mattino nella liturgia ebraica – fino ad approdare a quella attuale, «la più vicina a quello che il poema mi chiedeva». Nella bella nota che accompagna la traduzione, il curatore, Stefano Tedeschi, annuncia, oltre la ricerca della maggiore vicinanza possibile con l’originale, la scelta di non accompagnare la versione in italiano con il testo a fronte proprio per rispettare la natura del poema e «favorire quella lettura continua».
Gloria Gervitz è nata nel 1943 a Città del Messico in seno a una famiglia di migranti russi e ucraini di origine ebraica e ha poi vissuto in California: «Dopo quarantaquattro anni con questo poema, dopo cinquant’anni che scrivo poesia, penso che alla fine abito nel poema come ai piedi di un tempio».
In Migrazioni si ritrovano le tracce della sua eredità familiare: interlocutrice privilegiata della «voce del poema» è la madre («anche la nonna, la tata, molti io»), presenza costante e molteplice, declinata tra il piacere e il dolore.
Senza ordine cronologico («come nemmeno la vita»), fatto di parole che appaiono dopo, «e in minuscola come se venissero da lontano», il libro è piuttosto saturo di un silenzio che ne è anche unità di misura, e che si misura nello spazio tra una parola e l’altra mentre si guada il verso («seguo il movimento del fiume il suo peso le particelle il suo silenzio le sue larve i suoi labirinti»). La grafica, soppesando gli spazi bianchi, ne preserva la natura e restituisce al lettore le diverse «sfumature e consistenze» fino all’immersione ora in un bolero («dalle persiane chiuse musica mai sentita prima») ora in una liturgia ebraica, poema del tempo e dell’intimo quotidiano.
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