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«Quei 200 milioni che fanno la differenza»

«Quei 200 milioni che fanno la differenza»Miliziani talebani in Afghanistan – LaPresse

Galassia jihadista Intervista a Antonio Giustozzi sui rapporti fra i «turbanti neri» di Kabul, i seguaci di al-Qaeda e i combattenti dell’Is. Intanto la "guida" Abaitullah Hakhundzada annuncia in autunno un nuovo summit sulla leadership

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 19 agosto 2016

Nel novembre 2014, otto mesi prima che ne venisse data notizia ufficiale, il ricercatore Antonio Giustozzi, tra i più autorevoli studiosi della galassia dei turbanti neri, aveva rivelato in anteprima al manifesto la morte dello storico leader dei Talebani, mullah Omar. Circa un mese fa, a Kabul, abbiamo di nuovo fatto il punto con lui.

Questa volta sono due le notizie importanti: l’attuale numero uno dei Talebani, Abaitullah Hakhundzada, nominato il 25 maggio 2016, è soltanto un leader temporaneo, perché «in autunno ci sarà un’altra elezione». L’altra è che, per sottrarre uomini e territorio ai Talebani, il Califfo al-Baghdadi ha spedito in Afghanistan un suo uomo di fiducia, l’inviato speciale Abu Yasir al-Afghani.

Per comprendere che direzione prenderà la partita in corso, conviene partire dalla recente nomina di Abaitullah, che ha sostituito il successore di mullah Omar, quel mullah Mansur eletto tra mille polemiche nel luglio 2015 e morto incenerito da un drone Usa il 21 maggio scorso nel Beluchistan pachistano, mentre dall’Iran cercava di raggiungere l’Afghanistan. Una morte «in viaggio» che esemplifica quanto la partita afghana sia piena di lunghe mani straniere.

Quali sono le ragioni dell’elezione di Abaitullah Hakhundzada a nuovo amir al-mumineen, «guida dei fedeli» e dei Talebani?

Dopo le discussioni dell’estate scorsa sulla nomina di Mansur, i Talebani avevano urgenza di dare una risposta forte e immediata. L’attuale numero due, Sirajuddin Haqqani, leader della shura di Miran Shah (una delle tre principali «cupole» talebane, insieme alla shura di Quetta e di Peshawar, nda) tra marzo e aprile aveva quasi realizzato un colpo di stato, e sosteneva una linea ritenuta troppo radicale dalla Rabhari Shura (l’organo di indirizzo «politico» dei Talebani) e, qualcuno dice, perfino dai pachistani.

Abaitullah è stato scelto perché non ha una forte base di potere personale, non è percepito come una minaccia da nessuno. Al momento dell’elezione, ha invitato tutti i dissidenti a rientrare nel movimento e ha dichiarato una scelta fondamentale: in autunno ci sarà un’altra elezione, più collegiale, con una sorta di congresso di partito. Abaitullah è un leader non controverso, ma temporaneo.

Si è molto speculato sulla morte di mullah Mansur, fatto fuori dagli americani mentre, di ritorno dall’Iran, si trovava in macchina nel Beluchistan pachistano. Com’è andata veramente?

La sua morte segna la fine dell’allineamento Usa con le posizioni pachistane su un negoziato di alto livello tra Mansur e Kabul. Gli americani hanno cominciato a diffidare della volontà pachistana, mentre il governo di Kabul in teoria era d’accordo, ma sabotava il processo di pace.

Ad aprile gli Usa hanno cambiato rotta, tornando alla vecchia idea di dividere e indebolire i Talebani. Obama aveva capito che nulla di significativo sarebbe successo prima delle presidenziali di novembre, e al Dipartimento di Stato si dubita che, chiunque sia il suo successore, abbia interessi nel negoziato.

Il nuovo leader dei Talebani ha un compito difficile. Ritrovare la coesione del movimento, diviso tra spinte centrifughe, sospetti e finanziamenti ridotti. Come va?

Sembra essersi mosso bene: ha fatto pace con Sirajuddin Haqqani, e cerca di crearsi una struttura autonoma, riportando i «figliol prodighi» dalla sua parte. La chiave di volta però è il negoziato con i Talebani che sono in Iran. Abaitullah punta a un modello confederativo, vecchio stile, alla maniera di mullah Omar.

Ma nel frattempo molte componenti talebane hanno costruito canali alternativi di finanziamento rispetto alla shura di Quetta. Riunificarsi significherebbe perderli. Tutti sanno che uniti si è più forti, ma i finanziatori non ci stanno. Gli iraniani non sono disposti a finanziare chi prende soldi anche dai sauditi, e i sauditi – che ora puntano su Sirajuddin Haqqani – lo stesso.

C’è chi dice che mullah Mansur fosse in Iran per “smarcarsi” dallo sponsor pachistano. É così?

Sembra che Mansur sia andato in Iran con un volo militare dei pachistani. Speravano che negoziasse qualche forma di coordinamento con gli iraniani, che però gli hanno proposto di passare armi e bagagli con loro: volevano controllare il processo negoziale. I pachistani non l’hanno presa bene e l’hanno richiamato a Quetta. Mansur ha pagato questo doppio passo.

Forse, qualcuno ha passato agli Usa l’informazione del suo viaggio in auto. Forse, si tratta di qualcuno vicino a Qayyum Zakir (già a capo della potente Commissione militare, nda), in rotta con gli iraniani. C’è chi dice che quando Zakir ha saputo che Mansur, come lui, era in Iran, e che era lì per negoziare, ha perso la testa, litigando con il generale Mousavi delle Guardie rivoluzionarie, che segue l’Afghanistan. Gli iraniani già avevano dubbi su Zakir, perché alcuni suoi comandanti, anziché dare la caccia agli uomini dello Stato islamico in Afghanistan, se la facevano con loro.

Nel novembre 2015 hai pubblicato un saggio sullo Stato islamico in Afghanistan, in cui notavi le difficoltà logistiche e organizzative della cosiddetta «provincia del Khorasan», la branca ufficiale del Califfo nell’area. Da allora, cos’è cambiato?

C’è una novità importante: al di sopra del governatore della «provincia» dell’Is nel Khorasan (Hafiz Saeed Khan, eliminato dagli americani nei giorni scorsi, nda) ora c’è un inviato speciale, Abu Yasir al-Afghani. Già sodale di al-Zarqawi (il jihadista giordano leader dello “Stato islamico in Iraq”, nda), al-Afghani è stato spedito dal Califfo in Afghanistan per riportare un po’ di ordine: il tentativo di espansione e reclutamento dell’Is tatticamente è stato un successo, ma strategicamente un disastro, perché ha fatto coalizzare forze governative, Talebani, tribù e forze locali. L’idea ora è di tornare alla strategia originaria: basso profilo, costruzione di basi logistiche e campi di addestramento.

In Afghanistan, lo Stato islamico punta a sottrarre uomini, finanziamenti e territorio ai Talebani. Ma tra i due gruppi ci sono importanti differenze dottrinarie, ideologiche e strategiche…

É vero, ma dal punto di vista dei potenziali «clienti», i comandanti militari che devono decidere da che parte stare, la differenza non è poi così netta. É più una differenza retorica, che pratica. Fondamentali, piuttosto, sono i fondi: se i finanziamenti dei Talebani diminuiscono e aumentano o rimangono costanti quelli dell’Is, il gruppo del Califfo potrà espandersi, occupando un enorme spazio vuoto.

I Talebani in questa fase si proiettano verso le autostrade e i centri urbani, Is punta ai distretti remoti e marginali, dove non c’è controllo governativo, talebano o comunitario. In certe aree del Kunar, di Nangarhar e del Nuristan, dove è diffuso il salafismo, la strategia del «reclutate ed espandetevi» potrebbe funzionare. Tutto dipende dalla capacità del portafogli.

Di quanti soldi dispongono gli uomini del Califfo?

Si parla di circa 200 milioni di dollari ogni anno. I Talebani nel complesso godono di finanziamenti maggiori, ma rimane una cifra significativa per l’Afghanistan. Parte di quei soldi serve a comprare i mullah, a reclutare spesso con la forza i giovani, ma pagandoli. Parte serve a pagare i combattenti: nelle fila dell’Is in Afghanistan ci sono una dozzina di gruppi di origine diversa, dai Talebani dalle più disparata provenienze ai beluci, dai pachistani ai combattenti dell’Asia centrale, in particolare quelli dell’Islamic Movement of Uzbekistan. Alcuni di questi gruppi hanno legami diretti di finanziamento con i paesi del Golfo. Per questo la cifra è così alta.

L’Afghanistan esemplifica la partita in corso nel panorama jihadista, con lo Stato islamico che cerca di cooptare gruppi e movimenti che a lungo hanno gravitato, come i Talebani, nell’orbita di al-Qaeda, antagonista dell’Is. Chi ha la meglio, per ora?

Ci sono stati diversi slittamenti. In pratica, l’Islamic Movement of Uzbekistan e altri gruppi centro-asiatici flirtanocon lo Stato islamico, pur mantenendo legami privilegiati con al-Qaeda. Se l’Is dura, sono pronti a cambiare casacca una volte per tutte. Sul terreno, però, non c’è grande differenza tra gli uzbechi dell’Is e quelli di al-Qaeda.

Quanto al legame tra Talebani e al-Qaeda, non si è mai interrotto del tutto. Quando Mansur intendeva rilanciare il negoziato, al-Qaeda ha interrotto i finanziamenti diretti, pagando invece chi, come Zakir, si opponeva al negoziato. Si tratta di una scelta: è venuta meno la fiducia, a causa delle tante fratture interne, dei cambi di casacca, delle aperture dei Talebani all’Iran e al negoziato. Oggi al-Qaeda investe di meno nei Talebani, per via diretta, e di più nel creare fronti afghano-pakistani legati alla casa-madre. L’interesse è mantenere basi nell’est dell’Afghanistan. Nelle stesse zone a cui ambiscono gli uomini del Califfo.

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