«Never before, never again»: così nel 2013 a Los Angeles veniva annunciata l’esposizione di sei vetrate istoriate della cattedrale di Canterbury che per la prima volta, e probabilmente anche l’ultima, erano state rimosse dalle loro cornici architettoniche per il restauro, e con l’occasione erano divenute oggetto di una mostra oltreoceano. Lo stesso discorso, mutatis mutandis, è valido per l’evento ora in corso a Palazzo Barberini (fino al 5 febbraio), Annibale Carracci. Gli affreschi della cappella Herrera (catalogo a cura di Andrés Úbeda de los Cobos, Skira, pp. 199, euro 29,00).

Da quando nel 1833-’34 furono sciaguratamente strappati (caso più unico che raro per le pitture romane di età moderna) dalle pareti della cappella in San Giacomo degli Spagnoli, chiesa che pur affacciata su Piazza Navona è tutt’altro che ben nota, anche agli stessi romani, gli affreschi in questione non erano mai stati riuniti, né erano tornati nella città in cui furono dipinti: dopo complesse trattative con lo Stato della Chiesa, e con la sua moderna politica di tutela del proprio patrimonio artistico, la Spagna nel 1850 ottenne di inviare gli affreschi trasportati su tela a Madrid e Barcellona, dove già nel 1843 ci si augurava che potessero «servire da modello e accrescere la giusta reputazione della scuola bolognese». Sebbene la giusta preoccupazione per la salvaguardia di opere minacciate da totale rovina (la chiesa era stata chiusa al culto nel 1822, e in seguito trasformata in un deposito di legna da ardere) avesse una parte importante in tutta questa vicenda, è possibile che fin dall’inizio ci fosse anche la volontà di appropriarsi di un capolavoro ammiratissimo da sempre. Proprio allora, paradossalmente, cominciava però a scemare la fortuna della scuola bolognese: quando i frammenti portati a Madrid furono trasferiti al Prado, nel 1872, suscitarono scarso interesse, e oggi stesso anche quelli conservati al Museu d’Art de Catalunya non sono certo tra gli highlights dell’istituzione, dove si va soprattutto per ammirare gli affreschi romanici delle chiese pirenaiche (anche quelli, purtroppo, strappati ai loro contesti originari all’inizio del Novecento).

A partire dal 2011 le pitture provenienti dalla cappella Herrera sono state accuratamente restaurate, e la mostra ora in corso a Palazzo Barberini si è tenuta prima a Madrid e poi a Barcellona; ma solo qui a Roma, grazie a una felice scelta della direttrice Flaminia Gennari Santori, si è deciso di ricostruire uno spazio in tutto simile all’originaria cappella Herrera, dove sono stati ricollocate al loro posto le pitture oggi in Spagna, e la pala d’altare rimasta sempre nell’Urbe, in un’altra chiesa della nazione iberica, Santa Maria di Monserrato. L’emozione di vedere ri-materializzato un complesso pittorico di questa importanza è davvero forte: forse non never before (fino al 1830 la cappella era lì, con tutti i suoi stucchi, andati perduti), ma con ogni probabilità never again.

Affreschi e pala erano stati commissionati da un banchiere spagnolo, Juan Enríquez de Herrera, figura studiata a fondo da Cristina Terzaghi, che nel 2007 aveva pubblicato numerosi pagamenti relativi alla costruzione della cappella e alla realizzazione degli stucchi, a cui si lavorava già nel 1602: era stata allora avanzata l’ipotesi che anche il cantiere pittorico fosse avviato subito dopo. La questione non era di poco conto, perché al di là della qualità di affreschi e pala, la celebrità della cappella Herrera nasceva da una precisa circostanza: si trattava, secondo tutte le fonti, dell’ultima grande opera di Annibale, che nel 1604-’05 era stato colpito da una malattia dalla quale non si sarebbe più ripreso fino alla morte (1609). Già Celio, nella sua guida del 1638 a cui nel catalogo non si dà giusta rilevanza, scriveva che gli affreschi della volta erano stati dipinti da Annibale, che aveva invece solo eseguito il «disegno» delle scene maggiori sulle pareti: è evidente, quindi, che il maestro abbandonasse la pittura proprio mentre era al lavoro in quel cantiere. E tutto questo è stato confermato da una lettera di Albani del 1658 appena pubblicata da Miarelli Mariani (e riproposta nel catalogo), in cui l’allievo ricordava come il maestro non avesse lavorato alla parte bassa della cappella «perché esso Carracci non si applicò più perché le era rimasto poco cervello».

Sebbene Albani fosse stato certamente colui che aveva preso in mano la direzione del cantiere, quando quell’opera acquistò un’aura del tutto eccezionale, nel momento in cui Annibale assurse al ruolo di mitico restauratore di tutta la pittura moderna, risollevata dalle secche del manierismo e salvata anche dalla minaccia del caravaggismo, i suoi eredi finirono quasi per accapigliarsi pur di ottenere il riconoscimento di un ruolo nella cappella Herrera: Domenichino indicava di persona agli intendenti cosa vi aveva dipinto, e così Baglione nel 1642 mise Albani e Domenichino sullo stesso piano; Bellori, nel 1672, riconosceva però che era stato il primo a fare la parte del leone. La storia del dibattito critico seicentesco circa l’attribuzione dei singoli affreschi della cappella (non si devono dimenticare Badalocchio e Lanfranco, a cui sono da riferire le lunette) è insomma ricchissima e affascinante e non ha forse eguali, per quel secolo, da questo punto di vista. Il merito delle bellissime istorie maggiori sulle pareti laterali deve forse essere riconosciuto tanto ad Annibale quanto ad Albani. A quest’ultimo, infatti, Bellori nel 1645 avrebbe scritto: «mi pasco della Galleria de’ Verospi di Bassano, e de’ quadri Giustiniani, e della Divina Cappella di S. Giacomo de’ Spagnuoli» indicando quasi in quegli affreschi, che pure erano stati progettati e disegnati da Annibale, il suo maggiore capolavoro (e chissà se Albani aveva apprezzato quel giudizio, che vedeva passare in secondo piano le sue opere autonome, prima di tutto la bellissima decorazione del palazzo Giustiniani di Bassano: solo la cappella Herrera era ‘Divina’ per Bellori). Certo è che al centro della ‘ricostruita’ cappella Herrera si comprende tanto della pittura della scuola dei Carracci, a partire dai capolavori di Domenichino a Grottaferrata e a San Luigi dei Francesi.

Prima di entrare nella cappella, in mostra si può anche riflettere sul rapporto fra disegno ed esecuzione, osservando alcuni dei fogli che sono stati ricollegati dalla critica al cantiere Herrera, sui quali pure il dibattito è aperto (Annibale? Albani? Anonimi assistenti di Annibale?). E c’è poi la bellissima pala, sicuramente autografa di Carracci, con l’indimenticabile figura del piccolo Diego, figlio del committente, per il quale intercede il suo santo eponimo, Diego d’Alcalà: l’ultimo saggio di Annibale ritrattista.