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Kazuhiro, il film è un corpo organico

Kazuhiro, il film è un corpo organicoda "Campaign"

Berlinale Intervista al grande documentarista giapponese, stile e disciplina

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 10 febbraio 2018

Soda Kazuhiro è forse il documentarista giapponese in attività più conosciuto fuori del Giappone. Una delle ragioni è di certo che da ormai più di vent’anni Soda vive e lavora a New York, città-nazione dove si trasferì – dopo una laurea in studi religiosi presso l’università di Tokyo – all’inizio degli anni Novanta per studiare cinema alla School of Visual Arts, scelta dopo aver letto un’intervista a Jim Jarmush (tra i modelli impliciti del suo primo e unico lungometraggio a soggetto, Freezing Sunlight, girato nel 1996 in 16 mm e in bianco e nero).

Il suo è un cinema rigoroso ma umanissimo, libero seppure prodotto da una ferrea autodisciplina, iniziato come reazione e rifiuto del documentario addomesticato agli standard della produzione in serie imposti dalla televisione (gli anni dell’apprendistato dopo il diploma alla SVA trascorrono confezionando contenuti per la NHK, televisione di stato giapponese) e sviluppato lungo un doppio crinale: da una parte la lezione dello statunitense Frederick Wiseman – dal quale Soda impara l’approccio del documentario d’osservazione – dall’altra il cinema di Ozu e di altri più recenti registi e documentaristi giapponesi tra i quali spicca il nome di Makoto Sato, filmmaker e accademico, leggendo le pagine del quale (Mirror Called Everyday: the world of documentary film, 1997 e The Horizons of Documentary Film – To Understand the World Critically, 2001) Soda scopre per la prima volta la varietà e la raffinatezza delle forme del documentario.

Nel 2007 Campaign apre ufficialmente la filmografia dei lungometraggi documentari che Soda Kazuhiro inizia a produrre, girare e montare in completa autonomia, secondo il progetto della observational film series , giunta oggi al decimo titolo (ancora in postproduzione). Dal racconto di una campagna elettorale (Campaign e Campaign 2) al diario intimo dall’interno di un centro per il ricovero e la cura di pazienti psichiatrici (Mental), dal lavoro di una piccola azienda di allevamento di ostriche (Oyster Factory) allo studio sul lavoro di uno dei più grandi drammaturghi giapponesi contemporanei – Hirata Oriza – (Theatre One e Theatre Two) i documentari di Soda – fin qui tutti girati in patria tranne uno, tutti numerati in ordine cronologico tranne uno – compongono da una parte l’appassionante autobiografia di uno sguardo, dall’altra un atlante in continuo aggiornamento che illustra, studia e mette in questione gli aspetti meno esposti del Giappone contemporaneo. La direttrice che orienta il lavoro del regista e cuce insieme tutti gli observational film è una disciplina riassunta e pubblicata in un decalogo nel quale si trova sintetizzato un metodo centrato sull’osservazione partecipante del filmmaker che riprende i suoi protagonisti senza organizzare incontri preparatori, senza mai compiere ricerche, e sul suo approccio al montaggio scrupoloso e cronologicamente dispendioso; il sintomo più evidente di un pensiero analogico sul cinema quasi paradossale per un regista che ha legato indissolubilmente alla tecnologia digitale e alle possibilità da essa offerte la cifra più autentica del suo stile.

Il colloquio che segue è il frutto di un incontro avvenuto lo scorso ottobre a Firenze, dove il Festival dei Popoli ha dedicato a Soda Kazuhiro la prima retrospettiva completa in Europa, mostrando anche gli unici quattro film a soggetto (tre cortometraggi e un lungometraggio) realizzati nei primi anni a New York.

Molto presto nella sua carriera di documentarista ha elaborato un metodo formulato e presentato ufficialmente in un decalogo. Qual è la ragione di questa scelta?

Sono arrivato alla formula «observational film series» già nel mio primo documentario, Campaign, che è l’«observational film 1». Questa scelta deriva in parte da una paura. Oggi le cose sono un po’ diverse, ma allora il documentario era considerato una sorta di strumento per produrre progresso sociale, per veicolare un messaggio, un contenuto. Avevo paura che i miei film potessero essere accusati di non avere alcun messaggio politico. La formula «observational film» dovrebbe spingere le persone a pensarci un po’ su. Mi sembrò allora che sarebbe stato un buon modo per parlare di quel che faccio e di come lo faccio, del perché non sono interessato a trasmettere messaggi. È stato come scegliere un’insegna per il modo in cui lavoro. Questo nostro tempo è rapido, veloce, pochi sembrano interessati a leggere, a osservare, ad ascoltare: si tende a saltare subito alle conclusioni. In questo contesto sociale e culturale ho pensato fosse importante esporre il mio metodo chiaramente per sfidare gli spettatori, sfidare la norma sociale e lo status quo.

Ha parlato più volte della sua pratica meditativa quotidiana secondo la via del Vipassana. C’è nel suo modo di fare cinema, di essere osservatore discreto ma attivo una chiara parentela con lo sguardo contemplativo. La contemplazione richiede una preparazione esattamente come la richiede il lavoro delle riprese. Cosa fa per prepararsi quando sta per iniziare una sessione di riprese?

Per me che faccio quasi sempre tutto da solo, girare è fisicamente molto impegnativo. Di solito riprendo senza interruzioni, senza pause, perché temo che mentre mi riposo con la camera spenta qualcosa di interessante possa accadere. Mi sento sempre come sul fronte di una battaglia. Per questo cerco di allenarmi: per essere fisicamente forte ma anche mentalmente stabile. Faccio una specie di simulazione, poi porto con me quel che risulta utile durante questa prova. Cerco di trovare il modo di gestire da solo le riprese senza dover mai interrompere la registrazione.

Da quando ho iniziato lo studio e la pratica della meditazione, medito sempre prima di uscire a girare. La meditazione placa la mente, è in sé un modo per sbarazzarsi dei pensieri indesiderati o perlomeno per farci i conti, un ottimo modo per restare concentrati sul momento presente. È esattamente di questo che ho bisogno quando giro, perché la mente si riempie facilmente di pensieri inconsulti; per esempio di aspettative su quel che potrebbe dire il soggetto che riprendo o, all’opposto, pensieri di disappunto quando sbaglio qualcosa nella gestione della camera. Non c’è alcuna utilità nel pensare al passato o al futuro: anche se è la nostra natura umana a essere fatta in questo modo, questa è una via aperta al fallimento. La meditazione mi permette di essere consapevole, di rendermi subito conto di quel che sta succedendo nella mia mente, in modo che riesca a mantenermi concentrato su quel che mi succede intorno, perché possa essere un testimone e un ascoltatore più lucido e attento.

La fase del montaggio – tipicamente momento delicato e cruciale nella produzione di un film documentario – assume rispetto al suo metodo una importanza del tutto speciale. Come organizza questo processo e attraverso quali fasi procede il suo lavoro?

Per prima cosa l’acquisizione: di solito acquisisco da quaranta a cento ore di girato. In effetti adesso che ci penso per Theatre erano più di trecento… Poi guardo tutto il girato prendendo appunti durante la visione, che avviene sempre integralmente e in tempo reale, senza salti né accelerazioni. Fare questo mi richiede molto tempo. Per guardare il girato dei due film Theatre One e Two ci sono voluti sei mesi, il quaderno degli appunti era diventato un librone. Scrivo e stampo subito, ma leggo questo quaderno d’appunti in un momento successivo. Alla fine di questa prima revisione generale so quali scene sono le più forti, quelle più rilevanti, e quali invece sono quelle trascurabili. Così inizio con il montare le più interessanti o le più cinematografiche o quelle che mi sembra possano essere le più importanti per il film. Possono risalire alle primissime fasi delle riprese, o anche agli ultimi momenti, non importa: scelgo quelle scene perché sono le fondamentali, quelle essenziali. Poi vado avanti con altre scene, non necessariamente le migliori, quelle che mi sembrano comunque di qualche peso. Le monto una dopo l’altra e finisco con il ritrovarmi con venti o trenta scene buone che finiranno nella versione finale del film. È a questo punto che comincio a metterle in ordine, costruendo contemporaneamente delle scene di supporto, scene che sostengano le principali che riescono a rivelare la loro forza solo se posizionate dentro un contesto. Per esempio, la prima scena che ho montato in Campaign 2 era in realtà l’ultima ripresa, per me anche la più importante. Ma se la guardi senza sapere niente del contesto, sembra una scena come un’altra in cui Yamauchi Kazuhiko (protagonista del film, candidato alle elezioni amministrative della città di Kawasaki n.d.r.) tiene un comizio. Si tratta di una scena molto ordinaria, nessuno penserebbe che sia eccezionale, al contrario, si tratta di un fatto in sé noioso. Ma se intorno ci metti un contesto, diventa subito una scena molto significativa.

Una volta aggiunte le scene di supporto, arrivo a una prima versione ancora grezza del film, di solito una versione disastrosa, deludentissima. Guardo sempre questi primi esperimenti insieme a mia moglie Kyioko che puntualmente si addormenta poco dopo l’inizio, il che contribuisce ad abbattermi ancora di più. È davvero terribile, ma so per esperienza che la prima versione è sempre così. Seguito a rifinire il film usando dei bigliettini sui quali appunto le singole scene, appiccicandoli poi tutti sulla parete, e rimescolandoli per definire la struttura del film. Quando ho finito con i foglietti, torno al film e lo rimonto. Così ottengo la seconda versione. La guardo per intero: anche questa è un disastro. Forse leggermente migliore della prima, ma niente che abbia raggiunto ancora l’aspetto di un film. Torno ai foglietti: li sposto e risposto, rimonto e ottengo una terza versione. Vado avanti così finché non sento che è diventato finalmente un film, che esiste come una creatura organica che ha una vita sua propria.

Al principio il montaggio sembra un assortimento casuale di sequenze. Dopo una serie innumerevole di revisioni però arrivo sempre al punto in cui ogni cosa finisce nel posto giusto ed è come se ogni scena avesse le sue diverse funzioni proprio come succede con un organo all’interno del corpo umano. I nostri organi hanno di solito più di una sola funzione e si sostengono a vicenda. Anche se esistono dentro il nostro corpo come elementi distinti, autonomi, non potrebbero sopravvivere senza la mancanza degli altri, soprattutto di quelli essenziali. Se le singole scene di un film iniziano a funzionare al suo interno in questo stesso modo, allora il lavoro è riuscito.

Nei suoi film intorno all’osservazione intensiva del soggetto principale, si trovano serie di deviazioni ripetute, di distrazioni sul mondo esterno, collezioni di dettagli apparentemente senza collegamento con il resto. Sono le scene che chiama «di supporto» alle scene principali? Come le costruisce e come funzionano?

Le scene che si trovano tra una scena importante e l’altra sono organi secondari, non meno importanti di quelli principali, e hanno una specifica serie di funzioni. La prima è contribuire alla creazione del ritmo di un film. La seconda: gli esseri umani, noi tutti, non siamo capaci di elaborare molte informazioni tutte insieme. Dopo una scena pesante che richiede molta attenzione c’è bisogno di un po’ di riposo prima di entrare nella scena successiva. Queste scene intermedie servono anche a questo. Come succede nella cucina giapponese: un piccolo piatto di accompagnamento accanto al piatto principale. Noi lo chiamiamo hashiyasume, tradotto alla lettera «quel che resta delle bacchette», ‘il resto delle bacchette”.

Un’altra funzione: ricostruire il contesto dentro al quale si muovono i protagonisti, il luogo in cui vivono o lavorano. Sono sempre interessato al contesto sociale che sta intorno a un individuo o a un gruppo sociale. Mi piace contestuallizzare. Per esempio in Peace da una parte ci sono i gatti, dall’altra il signor Hashimoto, mio suocero, mia suocera tutti ordinati in quella che sembra una giustapposizione di serie parallele. I gatti non si curano dell’esistenza del signor Hashimoto che a sua volta non sa dell’esistenza di quegli animali, ma se li metti insieme dentro lo stesso film succede qualcosa di simile a una reazione chimica: nella tua testa operi un montaggio, scopri una relazione e tiri fuori un significato da questo parallelo. Le scene intermedie intensificano queste reazioni chimiche. Non c’è niente che tenga logicamente insieme questi elementi, sono io che li metto arbitrariamente accanto gli uni agli altri, ma alla fine sembrano collegati, o perlomeno reagiscono gli uni rispetto agli altri, si parlano.

Questo mi piace molto.

A proposito dell’idea di costruire un film come fosse un organismo vivente, mi sembra che, allargando un po’ l’inquadratura, ci sia una dinamica simile nel modo in cui pianifica e realizza la serie dei suoi documentari come appunto le parti di un organismo che non smette di crescere.

Ho scelto di mettere tutti i miei film in quella che ho chiamato «observational film series» perché mi piace l’idea che i film comunichino l’uno con l’altro, che siano reciprocamente connessi. Non cerco volontariamente riferimenti da nascondere nei film mentre giro, ma non posso fare a meno di notare e sfruttare una rete di connessioni. L’idea di costruire una rete di riferimenti, di autocitazioni per così dire è iniziata molto presto, addirittura fin dalle prime riprese di Campaign. C’è in quel film una scena in cui si parla di una donna che ha perso la ragione, una donna che staziona per le strade del quartiere. Mentre stavo girando quel film sapevo già che il successivo sarebbe stato Mental. Ho avuto l’impressione allora che questa donna senza volto, ridicolizzata in una conversazione casuale, avrebbe potuto essere un bel collegamento con il film successivo. Così mi è venuta l’idea di mettere in tutti i miei documentari riferimenti di questo tipo. In un film trovi sullo sfondo, in secondo piano un elemento che in quello successivo viene ingrandito, approfondito, messo a fuoco. Ho iniziato a costruire questa rete di connessioni e collegamenti tra i film in modo che alla fine l’intera serie potesse essere vista come un insieme di parti interconnesse, un grande work in progress

Nel suo metodo pensato come fosse un gioco, qual è il ruolo riservato allo spettatore?

Conosce il baseball? Non penso mai allo spettatore come a un ricevitore, qualcuno che è lì a ricevere la palla che lancio. Per me lo spettatore dovrebbe sempre essere un battitore, qualcuno che ribatte, rilancia quel che io gli mando. Non si fa un film per poi guardarlo da soli. Non è fatto per quello. Faccio film perché voglio condividere la mia esperienza con il pubblico. Quando penso che una condivisione sia davvero possibile provo gioia. Ho guardato i miei film con molte diverse platee e ogni volta ho avuto l’impressione di guardare film diversi.

Per me il pubblico è quello della sala cinematografica. Mi piace guardare i miei film insieme alla platea in sala perché sperimento fisicamente la condivisione. Fare film è un processo che diventa spesso doloroso ma è grazie al ricordo che conservo da qualche parte nella mia testa di questa gioia provata nella condivisione di una proiezione che trovo la forza e la motivazione per andare avanti, per continuare col mio lavoro.

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