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Il Fight Club (senza cazzotti) di Beppe Grillo

Il Fight Club (senza cazzotti) di Beppe GrilloBeppe Grillo alla manifestazione del M5S – LaPresse

5 Stelle I benpensanti contro il fondatore e l’anomalia di una manifestazione sulle vite precarie che ha dimenticato clamorosamente, a pochi giorni dalla spaventosa ecatombe del Mar Egeo, l’esistenza dei migranti.

Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 giugno 2023

La vicenda di Grillo e dei tutori del decoro urbano in passamontagna può essere utile smontare uno dei refrain delle destre degli ultimi anni. Di fronte a qualsiasi scivolone politicamente scorretto, opinion leader e politici reazionari hanno rivendicato il diritto alla leggerezza, accusando i loro detrattori di grigiore moralista: «E fatevela una risata!». Ma ecco che quando il comico genovese tira fuori un ribaltamento comico quasi scontato sulle denunce a cittadini che avevano pensato di sistemare la città da sé, i giornali di centrodestra (e non solo loro) hanno addirittura tirato fuori lo spettro della violenza di piazza e l’allarme terrorismo.

C’è però un altro aspetto della situazione attuale, e a proposito della relazione tra comicità e politica, che questa storia aiuta a mettere in luce. Per qualche anno, Beppe Grillo ha realizzato il sogno segreto di ogni uomo di spettacolo: essere il protagonista assoluto anche al di fuori dei format dati e le assi del palcoscenico, costringere tutti (persino ministri e uomini politici) ad essere comprimari della sua rappresentazione, dettare tempi comici e persino «fare la storia». Da qualche tempo non è più così, per i motivi più diversi. Dopo aver trascorso anni al governo il suo M5S è cambiato irrimediabilmente, il pubblico ha chiesto altri tipi di messa in scena per altri attori politici (spesso anche più truculenti dei suoi vaffa), un altro leader ha preso il suo posto tra seguaci a 5 Stelle.

Il monologo dell’altro giorno, nella pur ambiziosa location dei Fori imperiali ha restituito il tentativo non annunciato, imprevisto e diremmo fallito del Fondatore di trovare la cifra adatta ai tempi. Grillo ha inanellato in forma confusa una serie di questioni. Alcune persino condivisibili come l’evocazione di un sistema di tassazione europea. Ma il suo discorso non ha folgorato la platea. Mancava l’ingrediente tipico del lessico populista: il noi contro il loro. Grillo ha cominciato annunciando che non avrebbe espresso giudizi sul governo Meloni. Nelle sue parole non si riconosceva la cifra comica e paradossale del vecchio addomesticatore di platee di provincia. Argomenti e proposte si affastellano senza soluzione di continuità: un pastiche in cui la proposta concretissima del reddito universale si accosta a richieste inverosimili come la relazione inversamente proporzionale tra l’età degli elettori e il peso specifico del loro voto.

Ciò significa che Grillo può ancora invadere il palco della sua creatura politica e prendersi la scena ma che non ha, per sua stessa ammissione, alcun filo politico da tessere. L’altro giorno se ne sono accorti i manifestanti, che guardano al barbuto monologhista con l’affetto compiacente che di solito è dedicato allo zio bizzarro che si lancia nel discorso di fine cena alle riunioni di famiglia. Se n’è accorto anche Giuseppe Conte, che aveva pensato a un evento tutto dedicato all’ascolto delle storie precarie dell’Italia al tempo di Meloni e che si è ritrovato a fronteggiare le polemiche sollevate dal Garante del suo partito, per ironia della sorte pagato 300 mila euro all’anno per fornire servizi di consulenza alla comunicazione al M5S del nuovo corso.

Proprio l’ex presidente del consiglio, tuttavia, aveva l’occasione di emendarsi da alcuni errori del passato. Conte, il cui approdo sul fronte progressista non smetteremo di salutare all’insegna dello scampato pericolo, ha fatto autocritica anche parlando con questo giornale: interrogato sui decreti sicurezza e sulle azioni esecutive più truculente compiute accanto all’allora alleato Matteo Salvini ha detto chiaramente che si trattò di un errore.

Però sabato scorso abbiamo notato l’anomalia di una manifestazione che si proponeva di amplificare il dolore e le sofferenze delle esistenze precarie e che dimenticava clamorosamente, a pochi giorni dalla spaventosa ecatombe del Mar Egeo, l’esistenza dei migranti. Cioè degli uomini e le donne che costituiscono materialmente un pezzo decisivo della forza lavoro vessata dall’ingiustizia. Sarebbe stata l’occasione per dimostrare di aver rotto davvero con il M5S «né di destra né di sinistra» che aggirava le questioni spinose, considerate dagli spin doctor poco convenienti dal punto di vista elettorale, per passare all’incasso sui temi ritenuti non divisivi. Quella stagione, e questo lo ha capito persino Grillo, si è chiusa definitivamente quando altri populisti hanno raccolto i frutti elettorali sui campi arati dalla distopia post-ideologica di Gianroberto Casaleggio.

Quanto ai benpensanti scandalizzati dalla parola «passamontagna» (la maggior parte dei quali in malafede), ci sentiamo di dire loro che possono stare tranquilli: se c’è una cosa che questi dieci anni di grillismo nelle istituzioni ci hanno insegnato è che i seguaci del comico difficilmente escono dalla dimensione di spettatori per passare all’azione, di qualunque tipo. Quel che si dice dal pulpito del Fight Club 5 Stelle rimane nel Fight Club 5 Stelle.

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