Cultura

Il fenomeno jihadista in bilico tra presente e futuro

Scaffale «Bandiere nere», Il libro sull’Isis di Joby Warrick, dall’inchiesta che gli è valsa un Pulitzer

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 5 luglio 2017

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Nella corposa inchiesta che gli è valsa la conquista del Pulitzer lo scorso anno, Bandiere nere. La nascita dell’Isis (La nave di Teseo, pp. 606, euro 22), il giornalista statunitense Joby Warrick indaga le condizioni che hanno reso possibile lo sviluppo dell’Isis per comprendere cosa tale vicenda possa dirci sul futuro del fenomeno jihadista.

AL DI LÀ DELL’ARTICOLATA ricostruzione storica dei fatti e delle scelte politiche che hanno permesso se non agevolato la nascita dello Stato Islamico – dall’Afghanistan dei talebani alla lunga occupazione americana dell’Iraq fino al sostegno offerto dalle monarchie del Golfo e dalla Turchia ai gruppi radicali islamici in seno all’insurrezione popolare siriana contro il regime di Bashar al-Assad -, Warrick analizza le motivazioni personali, oltre al contesto sociale e culturale nel quale hanno agito, di quanti hanno scelto di aderire, e in alcuni casi di guidare, tale organizzazione. Restituendo così al lettore la prospettiva in soggettiva della vita di un «quadro» della jihad, oltre ad alcuni dei temi ricorrenti in questa esperienza.

EMERGONO COSÌ i ritratti di alcune figure principali, ma anche uno schema psicologico e culturale ben più ampio. Da Abu Musab al-Zarqawi, il giordano, ucciso da un missile americano nel 2006, che da piccolo criminale diverrà l’artefice della strategia stragista a colpi di autobomba e di decapitazioni che avrebbe condotto alla formazione dello Stato Islamico. A Abu Bakr al-Baghdadi, studente di teologia islamica, figlio di un imam iracheno, che nel 2014 avrebbe proclamato la rinascita del Califfato nella moschea al-Nuri di Mosul.

PER ENTRAMBI, diversi tra loro quanto a indole e retroterra sociale, risulterà decisiva l’esperienza del carcere. Del resto, come spiega nel libro il ricercatore libanese Rami al-Khouri, «la radicalizzazione di molti di coloro che crearono al-Qaida e poi l’Isis è avvenuta nelle prigioni arabe. La combinazione di jet americani e prigioni arabe è stata il fulcro decisivo intorno a cui hanno potuto germogliare queste organizzazioni». Palestra d’odio, ma anche di disciplina e di formazione ideologica, la prigione farà di Zarqawi un «soldato politico» determinato e pronto ad ogni sorta di violenza, mentre Baghdadi forgerà in quel contesto il proprio profilo di leader politico-religioso.

Allo stesso modo, anche per le nuove leve del circuito jihadista, i foreign fighters tornati in Europa dopo aver combattuto in Siria e Iraq o quanti, sempre più spesso anche individui isolati o provenienti dal circuito della piccola delinquenza, traggono semplicemente ispirazione dalle gesta dell’Isis, è il carcere a fungere da laboratorio per una sorta di socializzazione politico-religiosa.

Così, «come Zarqawi e i suoi discepoli anni prima erano delinquenti di strada che adottavano un rigido codice religioso per ottenere l’ammissione in una banda ancora più dura, quella degli jihadisti», suggerisce Warrick, anche una figura come quella di Abdelhamid Abaaoud, il giovane belga considerato tra gli organizzatori della strage del Bataclan del novembre del 2015, avrebbe compiuto in prigione il passo decisivo in direzione della jihad.

NELLE STORIE dei «fondatori» dell’organizzazione, come in quelle dei «volontari europei» dell’Isis e di molti degli attentatori più recenti, strettamente legati a questi primi elementi appaiono poi altre due caratteristiche. La prospettiva che lo Stato Islamico, ma in senso più lato il «circuito jihadista», «offra una nuova legittimità alla rivolta contro la società che molti esprimevano in precedenza nelle attività criminali e nel ricorso costante alla violenza», e che nell’adesione a tali idee si insegua in qualche modo una sorta di «purificazione» rispetto alla propria vita precedente.

UN CASO, QUEST’ULTIMO, evidente fin dalla vicenda di Zarqawi, per certi versi «l’inventore» del brand Isis, del quale uno dei suoi accoliti racconta che «il suo passato di criminale lo affliggeva, come lottasse sempre con il senso di colpa». E che pare spiegasse la sua scelta jihadista con queste parole: «a causa di ciò che ho fatto in passato niente potrebbe spingere Allah a perdonarmi a meno che io non diventi uno shahid, un martire».

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