Visioni

Il fattore Quincy Jones

Il fattore Quincy JonesQuincy Jones, 1970 – foto Ap

Musica Addio al grande produttore, arrangiatore e compositore. Dizzy Gillespie e le colonne sonore, le battaglie per i diritti accanto a Martin Luther King, il trionfo di "Thriller" con Michael Jackson

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 novembre 2024

La musica ha attraversato e sostanziato la vita di Quincy Jones in modo totale, assoluto. Nato nel 1933 a Chicago e scomparso ieri nella sua casa di Bel Air (Los Angeles) circondato da una numerosa famiglia – aveva avuto tre mogli e sette tra figlie e figli -, l’artista afroamericano è stata una delle figure più poliedriche, creative e produttive nel panorama sonoro del XX e XXI secolo. Arrangiatore, compositore, trombettista, direttore d’orchestra, produttore discografico, scopritore di talenti, attore cinematografico, attivista per i diritti degli afroamericani (sostenne Martin Luther King negli anni ’50 e ’60) e per i diritti umani tout-court…

Il suo instancabile e irrefrenabile creare ha spaziato dalla popular music al jazz, dalla televisione (Willy, il principe di Bel Air) alle colonne sonore cinematografiche (Il colore viola, 1985, diretto da Steven Spielberg). I numeri e i primati, impressionanti, registrano ventisei Grammy Award su settantasei nomination, l’essere stato il primo afroamericano nominato ad un premio Oscar (1968, per il brano The Eyes of Love, dal film Il club degli intrighi, 1967, regista Ron Winston) come il primo afroamericano vicepresidente di una prestigiosa etichetta discografica (la Mercury).

Ha saputo fondere elementi del blues nel jazz, trovando un modo originale per rileggere il soul

EPPURE dietro all’immenso, scintillante successo c’è stata una vita non facile, come si legge nel libro, scritto dallo stesso Jones, 12 Note Sulla Vita e la Creatività (Edt 2023, edizione USA 2022). Aveva una madre afflitta da seri problemi psichiatrici, ricoverata quando lui era un bambino e scomparsa di fatto dalla sua vita senza che potesse avere con lei un rapporto autentico. «In tutta sincerità, se non avessi dovuto sopportare il livello di sofferenza che ha pervaso gran parte dei miei anni di crescita, forse non avrei mai trovato il mio mezzo espressivo, dedicandomici come ho fatto» (pp.9-10). È la musica che lo salva dall’autodistruzione perché Jones trasforma il dolore in determinazione e lo applica in modo totalizzante alla creazione sonora che lo redime. L’idea del libro nasce nel 2015, dato che «quando ho smesso di bere alcolici, tutti i miei ricordi hanno iniziato ad affiorare, portando con sé nuove prospettive che ora ho condensato in una serie di consigli essenziali, da condividere con chiunque stia cercando di sfondare i muri che spesso imprigionano la creatività» (p.XIV). Perché – secondo Quincy Jones – tutti abbiamo un potenziale creativo e meritiamo di realizzarlo.

LUI INIZIÒ da ragazzo ad amare e praticare la tromba, sviluppando altresì un precoce interesse per l’arrangiamento e studiando al titolato Berklee College of Music di Boston. Artista precoce, a diciotto anni (1951) entrò nell’orchestra di Lionel Hampton, militanza che condivise, in sezione trombe, con talenti come Clifford Brown, Art Farmer e Gigi Gryce. Dopo due anni, insofferente a costrizioni, scelse di scrivere arrangiamenti (tra gli altri per Tommy Dorsey, Count Basie – la loro collaborazione sarebbe durata a lungo – e Ray Anthony) e di lavorare come free-lance. Alla metà degli anni ’50 accettò, tuttavia, di fare il «musical director» per Dizzy Gillespie e dal loro connubio nacque il notevole album World Statesman (1956, anno anche del suo lp This Is How I Feel About Jazz).
Ciò che resta degli anni ’50 e una parte dei ’60 venne spesa da Quincy Jones componendo, scrivendo arrangiamenti e dirigendo formazioni sia in studio di registrazione che dal vivo per cantanti variegati come Frank Sinatra, Billy Eckstine, Dinah Washington (insieme realizzeranno The Swingin’ Miss ‘D’, 1956), Ray Charles, lo stilisticamente trasversale Brook Benton, il «popular» Johnny Mathis. Jones registrò anche da leader la propria musica in album quali The Birth Of A Band e The Great Wide World of Quincy Jones (1959), Q.Jones Live at Newport e Quintessence (1961). Essenziale, come si accennava, il rapporto artistico con Count Basie e la sua orchestra che ebbe trai suoi frutti One More Time (1958-’59) e Li’l Ol’ Groovemaker… Basie (1963).

DAI TARDI ANNI ‘60 la carriera di Quincy Jones si ampliò e differenziò, anche nel settore della produzione discografica che lo vide lavorare per Barclay, Mercury e A&M prima di fondare la sua etichetta, la QWest. In gran parte delle sue composizioni e arrangiamenti, il «maestro» di Chicago ha saputo fondere elementi del blues nel mainstream jazz, trovando un modo originale e personale per traghettare la profondità del «soul» e la carica del «groove» nel pop non a scapito del linguaggio jazz.

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