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Il fascino resistente della collettività

Il fascino resistente della collettivitàL'Ochestra di Piazza Vittorio

Storie/Orchestre e ensemble socialmente attivi all’interno di territori e comunità. In Italia e all’estero In California la Playing For Change è composta da musicisti di ogni latitudine. Sono dediti a progetti rivolti al mondo infantile. Grande fermento in Sud America, mentre da noi spicca l’Orchestra di Piazza Vittorio. Occhio a Les Amazones d’Afrique

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 1 settembre 2018

La bellezza della collettività. Può apparire un’idea desueta e anacronistica, retaggio di un millennio andato e, per dirla alla Hobsbawm, di un secolo breve che è bruciato davvero troppo in fretta. Eppure arde ancora con fulgore il bisogno di mettersi assieme ad altri e di affidare a un suono, speranze e desideri. E se le intenzioni mirano non solo ad un orizzonte artistico, ma anche ad un attivismo sociale e politico, l’ascolto può riservare gradite sorprese. Orchestre di ogni tipo e forma nei luoghi più disparati del pianeta, portano avanti la loro arte tenendo ben saldo il rapporto con la proprio comunità e aprendone di nuovi, in un vicendevole scambio di energie e idee. Dei territori di provenienza ne sono rappresentanza e grazie al volano artistico, sovente ne diventano la voce. Ensemble musicali che mutano per composizione numerica, stabilità o fluidità dei musicisti presenti ed età anagrafica. Ma che granitici e fedeli alle proprie idee, non cambiano il loro impegno civile.

NO PROFIT

Playing For Change è ad oggi l’orchestra internazionale più famosa al mondo, con alle spalle l’omonima fondazione no profit, locata in California, attraverso la quale vengono realizzati vari progetti sociali. La band è in contemporanea anche la formazione con il maggior afflato internazionalista, in quanto risulta composta in buona parte da musicisti di strada di ogni latitudine, inclusa una rappresentanza italiana nella persona del chitarrista livornese Roberto Luti, stabilmente inserito nell’orchestra. PFC nasce nel 2002 grazie ai due fondatori Mark Johnson e Whitney Kronke, impegnati in una serie di registrazioni di street musician negli Stati Uniti. Da quella idea embrionale si è giunti alla situazione attuale, che attraverso una corposa e ben fatta campagna di comunicazione via web, anche grazie ad un attivissimo canale You Tube, ha reso possibile la realizzazione di quello che da sempre è l’obiettivo dichiarato di PFC, ovverosia quello «di ispirare e mettere in collegamento musicisti per portare un messaggio di pace nel mondo, creando un cambiamento positivo attraverso la musica e l’educazione artistica». Ecco quindi che con dischi, concerti, tour internazionali e donazioni, PFC prosegue nella realizzazione dei progetti educativi destinati al mondo infantile e adolescenziale, attraverso scuole di musica, danza e lingua ad accesso gratuito, reperibili tra Argentina, Bangladesh, Brasile, Ghana, Mali, Marocco, Messico, Nepal, Ruanda, Sudafrica e Thailandia. Le infrastrutture necessarie vengono realizzate nel rispetto delle tradizioni locali e usando manodopera del posto: eclatante il caso della Music School costruita a Kirina, in Mali, alla quale tra l’altro contribuisce da tempo con varie donazioni, il sempre attivo e sensibile Damon Albarn. Fresco di uscita, lo scorso aprile, è l’ultimo album della band, intitolato Listen to the Music, zeppo di ospiti devoti alla causa, tra cui Buddy Guy, Tom Morello, Bombino e The Doobie Brothers.

Va sottolineato che Playing For Change rappresenta per la sua capacità di operare a livello planetario, una circostanza pressoché unica. Svolgono un lavoro intenso anche i Bixiga 70, formazione di dieci elementi che arriva dall’omonimo quartiere «italiano» di San Paolo, Brasile. Il combo strumentale che deve la parte numerica del suo nome al civico della strada dove da sempre sono rintracciabili, è considerato musicalmente tra le migliori sorprese degli ultimi anni, riuscendo a mescolare con perizia afrobeat, funk rock, latin jazz e ritmi tradizionali. La band è fortemente legata al sobborgo di San Paolo, al punto tale che celebrano questa connessione con un festival annuale di musica e street art chiamato Dia do Grafiti. Un happening a cui partecipano oltre diecimila persone, costruito assieme e per la comunità locale, come culmine di una serie di attività di supporto durante l’anno. Una formazione quindi che fa dell’impegno sociale un modus vivendi: «Crediamo che la nostra musica, anche se strumentale, abbia un messaggio chiaro. Siamo una band dal vivo, che esiste promuovendo celebrazioni collettive e, in un epoca in cui le persone sono sempre più costrette all’isolamento individuale, celebrare la collettività è una dichiarazione politica. Lo è anche il modo in cui siamo organizzati: completamente orizzontale, nessuna singola leadership e tutti i membri con lo stesso potere decisionale. Lo è anche il nostro punto di vista sulla situazione del Brasile, che negli ultimi cinque anni ha vissuto disordini politici. È accaduto un colpo di stato e attualmente abbiamo un presidente illegittimo, che cerca di imporre un programma a favore del capitale. Ci siamo sempre posizionati sia come singoli che come band, abbiamo partecipato a molte manifestazioni, suonando per dare supporto». Di loro si attende il quarto lavoro da studio per il prossimo ottobre, sempre su etichetta Glitterbeat.

TRA I RIFIUTI

Sempre in area sudamericana, in Paraguay, incontriamo le attività della Recycled Orchestra di Cateura, vale a dire la grande discarica a sei chilometri dalla capitale Asunciòn. Nell’area in questione ogni giorno viene depositata più di una tonnellata e mezzo di rifuti solidi e come riciclatori, vivono qui migliaia di persone. Nel 2006 Favio Chavez, un ingegnere ambientale con il pallino della musica, lavorando ad un progetto di riequilibrio ecologico proprio a Cateura, si è accorto che numerosi bambini delle famiglie residenti, non terminavano il normale percorso di studi, recandosi a lavorare come riciclatori nella discarica. Per evitare ciò, Chavez si impose di insegnare musica ai ragazzi, ricavando strumenti musicali direttamente da quel luogo malsano: viole, violini, chitarre, flauti e percussioni completamente costruiti con materiale di recupero. Dopo le resistenze iniziali delle famiglie, alla fine il progetto prese il largo e in breve tempo, Chavez si ritrovò con più ragazzi che strumenti, circostanza che nel 2009 è balzata agli occhi di Alejandra Amarilla e Juliana Penaranda Loftus, attiviste e documentariste. La storia racconta che nel 2014 ha visto la luce il film documentario Landfill Harmonic, incentrato proprio sulla vicenda dei ragazzi di Cateura. La pellicola, pluripremiata ovunque, ha dato la giusta luce alla Recycled Orchestra, permettendole così di girare il mondo e salire sul palco ospite di artisti del calibro di Megadeth (eseguendo una Symphony of Destruction davvero carica di significato), Metallica e Stevie Wonder, suonando inoltre per papa Francesco e in contesti classici. Una vicenda ben riassumibile in una battuta del direttore: «Il mondo ci spedisce immondizia, noi gli rimandiamo indietro musica». Va rammentato che il Paraguay è terra fertile: dal 1998 è attiva Sonidos de la Tierra, un’associazione civile di bene comune e senza scopo di lucro, creata dal direttore d’orchestra Luis Szaràn. Tra i principali obiettivi di Sonidos, c’è la promozione e formazione di scuole musicali, gruppi orchestrali, filarmoniche e liuterie destinati al mondo under 18. Tierranuestra è il progetto di maggiore rilievo, la Mega Orquesta Sonidos de la Tierra, l’ensemble di punta.

A complemento di tali esperienze, ricordiamo che in buona parte degli stati del Sud America, si è diffuso negli ultimi decenni il modello educativo Sistema Nacional de Orquestas Juveniles e Infantiles, che palesa forti richiami a El Sistema, di venezuelana provenienza, vale a dire il modello pedagogico musicale, ideato dal grande José Antonio Abreu, scomparso lo scorso 24 marzo. Risalendo verso nord, fino alla sventurata Haiti, si incontra una bella storia di collaborazione della statunitense Utah Symphony con una serie di giovani musicisti dell’isola. Il tutto è nato nel 2017 grazie ad un gruppo di diciassette orchestrali statunitensi che hanno trascorso un periodo ad Haiti, incontrando e formando i loro giovani colleghi. Tra aprile e maggio scorsi, l’occasione si è ripetuta con ben altri mezzi: la Utah Symphony, incluso il direttore Thierry Fischer, ha lavorato con oltre cento giovani haitiani per un training collettivo e individuale di una settimana, portando in dono strumenti, testi, spartiti. Mettendo inoltre a disposizione anche professionalità assenti sull’isola, a causa delle difficili condizioni di vita, come insegnanti e liutai.

GIORNI D’IRA

Una data precisa che ricorda un evento drammatico, è invece all’origine dell’Omagh Community Youth Choir: il 15 agosto 1998 un’autobomba esplose a Omagh, piccolo centro urbano dell’Irlanda del Nord, provocando 29 morti e oltre 200 feriti. Da quell’episodio figlio della stagione conflittuale dell’IRA, già pochi mesi dopo, nacque il coro giovanile. Nell’ottobre dello stesso anno, il giovane musicista locale Daryl J. Simpson mise assieme il coro, con il dichiarato intento di riunire giovani di diverse origini e tradizioni, al fine di sensibilizzare la comunità in un’ottica di pace e riconciliazione, per dare conforto in quei giorni bui dopo il 15 agosto. Negli anni a venire l’Omagh Community Youth Choir, oltre alla registrazione di Across the Bridge of Hope nel 1999, album che vide la partecipazione di una pletora di star tra cui Bono, Van Morrison, Liam Neeson e Justin Adams, ha portato il suo gruppo vocale di giovani donne e uomini in giro per il mondo, partecipando anche a numerose sessioni di incisioni in progetti di altri. Ancora oggi sono in tour e la loro ultima apparizione discografica è targata giugno 2018, come special guest in Guiding Light della star pop, nonché loro concittadina, Donna Taggart.

Altro encomiabile esempio giunge da Manila, Filippine, grazie al lavoro instancabile compiuto da The Minstrels Of Hope. Undici donne di un’età compresa fra i sedici e i trenta anni, tutte provenienti da quartieri disagiati della città, dalla metà degli anni Duemila, portano il loro talento vocale in ogni continente, calcando palcoscenici ufficiali e altri meno convenzionali, vedasi l’apertura della finale della Canadian Football Legue a Montreal. Anche grazie agli introiti dei concerti, svolgono una serie considerevole di attività tutte rivolte al mondo infantile e adolescenziale in condizioni di disagio e povertà, con una lunga serie di programmi educativi e ricreazionali, volti a stimolare gli ambiti intellettivi, creativi e sociali. Va sottolineato che buona parte delle coriste giunge dalle stesse aree urbane in cui effettuano le attività pedagogiche. La progettualità riguarda chiaramente anche la parte strettamente musicale, come dimostrano The Little Singers of Minstrels Rhythm of Hope, coro giovanile composto da sedici membri di ambo i sessi tra gli 8 e i 15 anni, attivo oramai da undici anni e in continuo ricambio e mutamento anagrafico.

Altra narrazione che desta stupore è quella della Orchestre Symphonie Kimbanguiste, nota anche come Kinshasa Symphony, la quale dalla omonima capitale congolese ha preso il via nel 1994. Il fondatore e direttore Armand Diangienda è riuscito con il tempo a rendere l’apprendimento e l’esecuzione di Mozart, Beethoven e Ravel, un dato concreto. I fatti raccontano di donne e uomini impegnati a sbarcare il lunario nella quotidianità con lavori ordinari, meccanici, barbieri, elettricisti e via dicendo, che a un certo punto hanno iniziato ad appassionarsi, grazie al lavoro di propedeutica musicale del carismatico Diangienda. A supplire all’assenza di mezzi sono arrivati ingegno e volontà: strumenti autocostruiti e presi in prestito, centinaia di spartiti copiati a mano. A gettare la giusta luce sulla OSK è stato il film documentario Kinshasa Symphony, datato 2010, dei registi tedeschi Claus Wischmann e Martin Baer. La pellicola, oltre a fare incetta di premi, ha dato la spinta finale all’orchestra congolese, la quale ha iniziato ad ottenere riconoscimenti planetari, suonando nei teatri internazionali di maggior prestigio. Il direttore è diventato membro onorario della Royal Philarmonic Society e più in generale, tutti gli orchestrali sono stati catapultati in un’altra esistenza, neanche lontanamente immaginabile fino a qualche anno prima. Gli esiti riguardano ovviamente anche la cittadinanza di Kinshasa: l’otto luglio è stata posata la prima pietra del Conservatorio della città, un risultato dalla portata straordinaria. Significativo il commento rilasciato sulla pagina FB dell’orchestra: «Insieme dobbiamo combattere per la sua costruzione. Sarà lunga, ma non impossibile».

NEL NOSTRO PAESE

Rimanendo nella stessa area, passaggio obbligato in West Africa. All’interno di quella che è una delle scene musicali più feconde dell’intero continente, segnaliamo il collettivo che forse presenta a un primo sguardo la più spiccata attitudine mainstream, ma che in realtà porta con sé un significato culturale di indiscutibile impatto. Loro sono Les Amazones d’Afrique, vero e proprio supergruppo composto da musiciste provenienti da Mali, Nigeria, Benin e Gabon: Angélique Kidjo, Kandia Kouyaté, Mamani Keita, Mariam Doumbia, Mariam Koné, Massan Coulibaly, Mouneissa Tandina, Nneka, Rokia Koné e Pamela Badjogo. A marzo del 2017 hanno pubblicato per conto della Real World Records, il disco République Amazone, un ottimo lavoro che in bilico tra suoni tradizionali, arrangiamenti electro dub contemporanei e funk-blues, poneva al centro della questione la situazione femminile relativamente ad abusi, violenze, mutilazioni genitali, poligamia e matrimoni obbligati. Del progetto iniziale faceva parte anche la stella Oumou Sangaré, poi ritiratasi. Il peso specifico de Les Amazones è assai rilevante: resa artistica di gran pregio e socio-culturale ancor più considerevole.

Il finale lo riserviamo a due esperienze artistiche stabilmente attive nel vecchio continente. La prima fa riferimento alla nostrana Orchestra di Piazza Vittorio, ben nota al grande pubblico sia per la storia che ne ha portato alla nascita, sia per le spiccate caratterizzazioni artistiche e sociali. Ci sembra opportuno rammentarne i numeri, al fine di valorizzarne il profilo: dal 2002 ad oggi hanno pubblicato cinque dischi, suonato in oltre 1300 concerti in giro per il mondo e alternato circa 100 musicisti nelle diverse incarnazioni dell’orchestra. La seconda ci porta in terra catalana, grazie ai barcellonesi Txarango, ensemble di nove elementi, attivo dal 2010 in ambiti sonori rintracciabili tra combat folk rock e latin reggae. La band, nota per essere una gioiosa macchina da guerra nei propri concerti, si contraddistingue anche per una iperattività sociale niente male, che la vede impegnata oltre che nella recente questione catalana, anche in ambiti assistenziali, come il sostegno a Radio Nikosia, emittente barcellonese che si muove nel mondo della salute mentale. Non solo, i Txarango sono il fulcro del Clownia Festival, rassegna di musica e arti con un forte indirizzo in ambiti world, che ha preso il via nel 2014. Di rilievo la presenza del gruppo in un progetto di supporto sociale in Senegal e nei campi profughi in Libano.

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