Il fascino ambiguo dell’outsider
Non possiamo pretendere dagli storici della musica e/o dai musicologi di proporre un cambio di paradigma nei loro campi di competenza se intorno c’è un deserto privo da decenni di narrazioni forti in ambito politico e sociale. Avremo (come li abbiamo) studi interessanti di dettaglio che analizzano un personaggio minore, recuperano un’opera scomparsa, vanno a spigolare qualche tema oscuro, etc. Avremo «narrazioni deboli», per iniziati, accurate nell’esplorare le minuzie dei recinti, ma di limitata o nulla portata generale. Questo succede quando manca un genere musicale rivoluzionario per linguaggio e per impatto sociale.
Se l’aria non è satura della miscela esplosiva costituita da novità+pericolo come possono gli intellettuali eccitarsi? Negli anni Novanta l’impetuosa crescita dell’ hip hop ha spinto David Foster Wallace a farsene cantore, come nei Sessanta il rock si rifletteva nella voce urticante di Lester Bangs e dieci anni prima il jazz aveva avuto il suo Jack Kerouac. Scrittori capaci di teorie roboanti, assolutismi da fan(atici), corsi e ricorsi storici azzardati, schianti pindarici. Vortici di pensiero che vanno in autocombustione presto, ma gettano le basi per una critica che non scrive ma «ricerca», non si scanna ma «giudica», non rischia: si «accomoda» in accademia. Il liquefarsi della musica con evaporazione dei profitti connessi all’industria del disco ha dato un colpo anche alla possibilità di sussistenza di un corpo intermedio tra gli artisti e le piattaforme, l’essere e il nulla.
Eppure continuano a uscire libri a tema musicale estremamente interessanti: normalmente si riferiscono a generi poco esplorati dal punto di vista critico come l’elettronica (Valerio Mattioli, Exmachina), il pop nostalgico (Simon Reynolds, Retromania), gli orizzonti africani (Steven Feld, Jazz cosmopolita ad Accra). Altri fanno critica musicale con le graphic novel (Massarutto/Squaz, Mingus), pescano perle scavando nel country più abominevole (Sarah Smarsh, Una forza della natura), riscrivono la storia del blues vista dalle donne (Angela Davis, Blues e femminismo nero), lavorano su concetti transfrontalieri (Giorgio Rimondi, L’invasione degli afronauti) o la trasversalità della performance (Hanif Abdurraqib, Piccolo diavolo in America).
Le caratteristiche comuni di questi lavori, per il resto diversissimi, risiedono nell’essere pensati da outsider rispetto alla critica o alla musicologia, l’essere quasi sempre scritti in soggettiva (senza scadere nel datato gonzo journalism) e nel proporre tesi forti. Si tratta di libri che si leggono provando il brivido della scoperta perché gli autori non hanno paura di rischiare.
STIMOLI
Gli stimoli arrivano dove le finestre sono aperte e la corrente circola liberamente, dove la nuova musica si affaccia nel panorama o c’è la possibilità di occuparsi di qualcosa senza che altri lo sequestrino, avocandone a sé in via esclusiva l’immaginario. Classica e jazz non sembrano offrire questa eventualità allo stato attuale. Potremmo aggiungere anche il pop e il rock, ma teniamo al centro i primi due generi perché sono quelli interessati da un paio di lavori recenti. Entrambi avanzano, fin dal titolo, tesi forti. Stuart Isacoff, musicologo, pianista, compositore, fondatore e direttore della rivista Piano Today, getta sul tappeto la carta più pesante e parla di rivoluzione, anche se poi gli sviluppi rispetto a un simile assunto scorrono come acqua fresca.
Il suo libro, Rivoluzioni musicali (EDT, Torino 2023, pp. 280, euro 22), isola quattordici momenti in cui la musica compie un balzo in avanti, grazie a un personaggio, a un movimento di idee, a un fattore scatenante. Leggendo troviamo: l’introduzione della notazione scritta moderna, la nascita dell’opera, la figura di Bach, gli esibizionisti dello strumento in epoca romantica (Paganini, Liszt). Nel Novecento Isacoff individua alcuni momenti legati alla musica afroamericana: l’arrivo precoce a Parigi del ragtime durante la prima guerra mondiale con l’orchestra di James Reese Europe, il bebop, la capacità di Miles Davis di macinare continue evoluzioni stilistiche. Per la musica colta abbiamo pagine dedicate all’introduzione dei rumori nel canone occidentale, all’elettronica, al minimalismo di Philip Glass e Steve Reich. Alcuni capitoli trasversali raccontano la musica declinata al femminile da Ildegarde von Bingen nel medioevo a Viola Smith, la batterista jazz più veloce del mondo o l’evoluzione della classica in Cina tra rifiuto ideologico e accettazione.
BEETHOVEN IN CINA
Gli snodi eversivi proposti da Isacoff, anche quelli contemporanei, sono tutti storicizzati e i ragionamenti sui fenomeni più recenti condotti con circospezione, quasi in provetta. Nel finale utilizza la Nona di Beethoven suonata in occasione della caduta del Muro di Berlino per avanzare alcune conclusioni, ma il passo felpato di Isacoff non entra nel magma della storia. Sulla fortuna di Beethoven e della classica in Cina sottolinea i cambiamenti politici alla base di ogni variazione (dalla messa al bando con la rivoluzione culturale all’accettazione successiva all’apertura al mercato) però lascia nell’aria eventuali conclusioni: «Come anche in Europa, Beethoven era in Cina una figura colossale e incombente, per quanto si dibattesse se fosse opportuno che questo illustre compositore occidentale fungesse da modello: la sua musica rifletteva decadenza borghese o fervore rivoluzionario?». Lasciamo la risposta a Ted Gioia, l’altro autore che ha affrontato temi simili, muovendosi al contrario con passo risoluto. Se questi ribelli, a partire da Beethoven, «campano abbastanza a lungo, possono persino partecipare alla normalizzazione della loro precedente radicalità. Elvis va alla Casa Bianca per bazzicare Nixon. Dylan accetta il premio Nobel. Jagger diventa baronetto».
Il volume di Gioia, Musica. Una storia sovversiva (Shake Edizioni, 2023, pp. 436, euro 23) spara bordate fin dall’introduzione. La musica non deve diventare un orpello per radical chic, altrimenti: «Un po’ come andiamo dal dentista a prenderci cura dei denti, entriamo puntuali in una sala da concerto per dare una lucidatina alla nostra reputazione culturale». Troppo? Affermare il contrario sembrerebbe ipocrisia pelosa… Eppure qualcuno punta il dito: ma quanto è gretto questo Gioia, che ha pure studiato a Oxford però in gioventù ha venduto l’anima a Mammona lavorando (di giorno) per grandi agenzie di consulenza della Silicon Valley e facendo il pianista jazz (di notte). Come storico della musica si è presentato al mondo con un saggio scintillante come L’arte imperfetta (1989) e da allora negli Stati Uniti si è imposto come uno dei critici di jazz e blues più autorevoli. I suoi libri a volte sono trascurabili, altre si rivelano utili ma questo costituisce un capitolo a sé. Purtroppo la presentazione in quarta di copertina propone la contrapposizione tra una storia ufficiale della musica che nasconde la verità e l’apporto misconosciuto dei ribelli che, quando emerge, genera una contro narrazione sovversiva. Questo atteggiamento da «non ci dicono tutto» rende guardingo l’establishment critico ma in realtà la tesi di Gioia è più sottile. Per l’autore non si può ignorare che spesso sono gli outsider, quelli che stanno ai margini, a fungere da «catalizzatori del cambiamento» a fare la storia della musica che poi l’economia di mercato recupera guadagnandoci sopra. Artisti scandalosi in vita riabilitati postmortem. Gli esempi fatti vanno dal blues al rock’n’roll fino all’hip hop. Il cambiamento: «procede dal basso verso l’alto e da fuori a dentro, non viceversa, chi detiene il potere e l’autorità di solito si oppone alle innovazioni musicali, ma nel tempo, per cooptazione o trasformazione, le innovazioni diventano mainstream, e così il ciclo ricomincia».
ORIGINI MISTERIOSE
Isacoff e Gioia iniziano i rispettivi trattati con le origini misteriose della musica (e dell’uomo), riportando notizie sui ritrovamenti della paleontologia. La prima scala diatonica realizzata su un osso d’orso sloveno scoperto da Ivan Turk nel 1995 retrodata all’uomo di Neanderthal tra i 40 mila e i 60 mila anni fa l’esperienza della musica che fino ad allora era stata attribuita esclusivamente all’homo sapiens (35 mila anni fa). Gli esperti hanno proposto decine di teorie sulle origini della musica presso i nostri antenati cacciatori e qui Gioia va giù un tanto al chilo: «Le ipotesi più convincenti si riducono di solito al discorso del sesso o della violenza», anche se non siamo distanti dalla «teoria delle sei canzoni» avanzata senza scandalo dal neuroscienziato Daniel Levitin, che individuava sei urtext, sei modelli, alla base delle varie tipologie di canzone (da quella d’amore alla religiosa). Il problema di Gioia è che ha fretta di conquistare il pubblico e quindi generalizza mettendo insieme «sesso e violenza, lirica e folk». Questo discorso sembra grossolano? Forse, ma ammassando dati Gioia ci porta a riflettere. Prendiamo un fatto – poco noto – che cita: il governo americano finanzia ben 130 bande militari, spendendo tre volte tanto i soldi in dotazione all’agenzia federale che sovvenziona tutte le arti. Lo stato con la maggior leva economica al mondo finanzia generosamente la musica «di guerra». Osservazione non banale mentre tutti i paesi del mondo stanno comprando armi sempre più costose a discapito del welfare dei propri cittadini.
Esiste una associazione diretta tra musica, armi e guerra, un tratto che unisce il prudente Isacoff al febbricitante Gioia. Secondo il primo: «Nella storia della musica non sono rari i casi in cui un progresso artistico consegue a un conflitto armato: John Dunstable, compositore inglese del Quattrocento e innovatore dell’armonia, influenzò generazioni di musicisti europei allorché accompagnò nelle sue campagne militari il duca di Belfort; gli europei rimasero incantati dal suo uso degli intervalli armonici di terza. I turchi introdussero i cimbali e altri strumenti a percussione attraverso le bande militari dei giannizzeri, quando nel Settecento mossero guerra all’Austria; quelle sonorità, prontamente assimilate, arrivarono fino a compositori quali Haydn, Mozart e Beethoven». Gioia torna invece all’uomo primitivo: le origini degli strumenti musicali arrivano da materiali derivati da attrezzi per la caccia (bastone, arco) o da parti degli animali cacciati (corno, pelle, viscere, ossa). Da qui trae l’immagine dell’orchestra sinfonica europea come ensemble carnivoro, eredità dell’uomo cacciatore. «Certe volte mi chiedo se la facilità con cui la sinfonia ha sposato le pulsioni nazionaliste proprio nel periodo in cui era la forma predominante non sia stato facilitato da questo secolare retaggio che risale fino alle pratiche musicali dei nostri antenati cacciatori in cerca di prede. Del resto non è stata la sinfonia la più nazionalista di tutte le forme d’arte romantica? (…) Soltanto gli strumenti realizzati con le canne sarebbero potuti spuntare in una comunità vegetariana. Quasi tutti gli altri, ricavati da corna, ossa, viscere e pelli dovrebbero ricordarci che le nostre canzoni, e gli stessi musicisti, discendono dai carnivori».
Le sue pagine abbondano di casi come questo dove l’autore procede usando un traballante metodo induttivo, con ragionamenti che sembrano aforismi. Gioia crea un quadro affascinante ma poco credibile, dove ogni genere musicale affonda le proprie radici nella preistoria: la rockstar ricorda il capro espiatorio degli antichi riti della violenza simbolica. Il cantante country rievoca le melodie dei pastori che ammansiscono il gregge, gli hip hopper tornano al canto monofonico delle prime comunità umane, la popstar attira con mosse erotiche da rito della fertilità, l’elettronica ricerca l’estasi o l’equivalente «fonoispirato e chimicamente assistito» delle pratiche sciamaniche.
DUALISMI
Gioia legge anche un dualismo ricorrente nei secoli. Da un lato abbiamo «la musica dell’ordine e della disciplina, che aspira alla perfezione della matematica ed è allineata alle priorità istituzionali», dall’altro quella «dei sentimenti forti, spesso associata alla magia o agli stati di trance, restia al controllo dall’alto». Il secondo tipo di musica viene osteggiata dalle élite e temuta per gli effetti che ha sul popolo. Siamo sicuri che il critico americano non abbia ragione sugli outsider, sui ribelli ai margini della società che lanciano messaggi sovversivi? Eppure abbiamo un esempio ineludibile che opera da oltre un secolo: «Dal ragtime all’hip hop e oltre, con tutte le fermate intermedie, i musicisti afroamericani hanno recitato la parte dei distruttori creativi, degli emarginati che scioccano e fanno arrabbiare i genitori ma divertono i giovani e stabiliscono gli standard per i pezzi di successo e i loro creatori».
Eppure questo lavoro di ipotesi e congetture ha un senso. Gioia ha ipotizzato che a inizio del secolo scorso il cabaret degli intellettuali europei reietti fosse in predicato di diventare la musica ribelle destinata a diventare moda, invece fu il gruppo di outsider ancor più deprivato degli afroamericani ad alterare più e più volte il corso della musica commerciale: «con ragtime e blues, poi con il primo jazz e lo swing e i primi vagiti del rhythm’n’blues, poi ancora con soul, reggae, samba, boogie-woogie, doo-wop, bebop, calypso, funk, salsa, hip hop e tanti altri generi e sottogeneri e generi ibridi». È storia fatta con i se, eppure il blues esemplifica limpidamente la tesi: da una parte gli outsider, i sottoproletari neri, dall’altra il recupero commerciale. Qui Gioia efficacemente ricorda come i proverbiali tre accordi del blues per anni sono stati restii alla codificazione. «Erano texture ribelli di suono che spesso avevano solo una vaga somiglianza agli accordi di tonica, dominante e sottodominante. Tutto cambiò nel tempo: alla fine la musica occidentale costrinse il blues a una forma standardizzata. Ma questo non rivela tanto qualcosa sul blues quanto sulle instancabili forze normalizzatrici che cercano di mettere la museruola a ogni innovazione musicale».
PIATTAFORME SOCIAL
La musica resiste alla mercificazione, anche a quella delle piattaforme social che l’hanno «liquidata» nel duplice senso di averla resa fluida, slegata dai supporti e di aver anche eliminato l’industria legata al disco. «Gli interni al sistema manovrano le leve del commercio», ma se vogliono che l’economia giri devono pur sempre «basarsi sugli emarginati». Dobbiamo solo capire da dove arriverà il suono che farà ripartire il processo, chi sarà il prossimo outsider, scrive Gioia. Sembra un finale da tema scolastico più che un saggio; però nelle ultime pagine l’autore piazza un’altra zampata e si confronta con il filosofo coreano, ora docente a Berlino, Byung-Chul Han sul concetto «segno dei tempi» di levigatezza che accomuna «le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana». Perché troviamo bello ciò che è liscio, levigato? La levigatezza non offre resistenza, chiede solo like. Una bellezza «levigata», fatta di pulizia, ordine e decoro diventa sedata: un eros depotenziato in pornografia lucida e plastificata. L’esperienza del bello diventa impossibile senza negatività, argomenta Han. L’originario esercizio del bello è invece una scossa estatica che ci trasforma e si prolunga anche nella vita etica e politica. Il bello naturale non rimanda al sentimento di piacere, ma a un’esperienza vera, il bello digitale invece costituisce un levigato omologato che non permette alcuna alterità. Pensiamo agli urti sonori di Thelonious Monk, John Coltrane, Cecil Taylor, Ornette Coleman, Albert Ayler: la bellezza che si dischiude dalla ferocia, dall’asperità, a volte dal brutto; creata oggi non avrebbe probabilmente alcuna possibilità di emergere.
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