Tonalità rigorosamente maggiori, ritmo tendente al ternario, metronomo che batte 115 bpm o giù di lì. Melodie semplici per gradi congiunti su un’estensione non eccedente l’ottava, ché tutti possano partecipare al coro, momento comunitario strappato all’individualismo della popstar di turno. Soprattutto tante, tantissime campanelle da slitta.
È una ricetta che soddisfa Frank Sinatra e Mariah Carey, i discografici e i commercianti al dettaglio, lieti di intrattenere i consumatori con canzoni ben connotate e capaci di persuadere costoro della concordanza tra valori spirituali e di mercato. A invadere le nostre orecchie, come ogni anno, segni musicali scaturiti dalla stessa radice dei testi intonati, frutti di un unico seme piantato quasi duecento anni fa. A ben vedere, infatti, i valori affibbiati al Natale contemporaneo non sono altro che lo spettro longevo della morale vittoriana, dell’ipocrisia da Boxing Day con cui tentò di armonizzare la dissonanza tra sviluppo economico e diseguaglianza sociale, del goffo senso di colpa di cui si imita ancora la postura.

NON A CASO gli anni Quaranta dell’Ottocento si erano aperti con un revival editoriale di inni e carol, ideali per omologare le attività ricreative della crescente popolazione urbana; avevano poi incassato la critica sociale del Canto di Natale dickensiano (1843, stesso anno in cui venivano introdotte le Christmas card) prima di chiudersi con il Manifesto di Marx e Engels. Per redimere i peccati del capitalismo la nuova ideologia natalizia si era rivolta al potere salvifico della famiglia, microcosmo della società e portatrice di valori che il soft power dell’epoca avrebbe contrapposto a quelli di un proletariato umiliato e offeso. Il tutto su una bella base di idealismo romantico, destinato a influenzare la canzone borghese in senso sociale, ideologico e politico. Oggi come allora.
Il Novecento mediatico non poteva che amplificarne la portata, anestetizzando anche il War is Over lennoniano nell’etere dello scampanellio. Identica sorte toccata al sermone corale Do They Know It’s Christmas, campione del filone benefico di identica matrice vittoriana, la stessa da cui emana la premura per i bambini — quando non impiegati in fabbrica — e la ricerca di amore, rigorosamente etero, che inzucchera le hit natalizie di Mariah, Wham! e compagnia cantante.Oggi come allora. Il Novecento mediatico non poteva che amplificarne la portata, anestetizzando anche il War is Over lennoniano nell’etere dello scampanellio.

NON PUÒ MANCARE infine una robusta dose di nostalgia alla White Christmas («just like the ones I used to know») e quel desiderio di casa già cantato da Elvis in I’ll Be Home For Christmas (If Only In My Dreams): l’ascoltatore lo capiva al volo, dall’arrangiamento più che dal testo, che non ce l’avrebbe fatta. In definitiva, come scrive Sheila Whiteley nel saggio Christmas, Ideology and Popular Culture (2008), le canzoni di Natale propongono un modello ideale delle festività, una checklist di temi ideologici in base ai quali siamo tenuti a valutare le nostre prestazioni natalizie. Ci ricordano ciò che dovremmo fare: festeggiare in famiglia, cantare in coro, fare beneficenza, scambiarci regali (mai dimenticarsi del commercio). Ci ricordano quali sentimenti provare, attraverso un sottile discorso ideologico che governa tanto i testi quanto la musica, come a voler mitigare quello sbalzo termico calore interiore-freddo esteriore così tipico del Natale. Quanto meno nell’ipersviluppato emisfero nord.
E per ricordarcelo non c’è neppure bisogno di nuove hit, perché la nostalgia si nutre di classici, cui occorre tempo per diventare tali. A tutto vantaggio dell’industria discografica, che incassa rivendendo ogni anno lo stesso prodotto. Un bel regalo di Natale.