I mauritani fanno i servizi, i cingalesi vendono le rose, gli africani maschi vendono le collanine, le nigeriane fanno le puttane, le donne dell’est sono badanti, le musulmane non lavorano perché i mariti non vogliono, i turchi fanno le pizze e i kebab e via enumerando… Sembra uscita da un manuale di zoologia fantastica, questa tassonomia che fa un po’ Borges – se non fosse che sono gli stranieri delle nostre città, dice Licia Lanera a presentazione di Love me, titolo sotto cui sono riuniti due pezzi di Antonio Tarantino (all’Arena del Sole fino all’11 dicembre, produzione Ert).
I due pezzi di Antonio Tarantino si intitolano La scena e Medea, come sta scritto col gesso sulle tre lavagne verticali che fanno da fondale alla scena, dove campeggia solo una poltrona gialla. Sulla poltrona sta seduto un ragazzone africano che assolve con paziente indifferenza alla sua funzione di capro espiatorio o di corpo del reato, così dice lei, l’attrice e regista. Lo straniero è lo spettro che si aggira sullo sfondo di Love me, senza mai concretizzarsi fuori dallo sguardo di chi parla. Sicché resta indeterminato da chi provenga quella richiesta di amore. E sarà la traccia del gesso sulle lavagne, ma viene da pensare a un ambiente scolastico, come se alla fine si trattasse di tirarci fuori da quella classe morta che rischia sempre di essere la platea teatrale.Sulla poltrona sta seduto un ragazzone africano che assolve con paziente indifferenza alla sua funzione di capro espiatorio o di corpo del reato, così dice lei, l’attrice e regista.
Tarantino era esploso come drammaturgo in età già matura agli inizi degli anni novanta, dopo un lungo periodo di lavoro soprattutto come artista figurativo. E subito troppo premiato, troppo rappresentato. Anche malamente, però in grandi teatri. Forse bisognerebbe rileggerlo, chi lo sa. Licia Lanera parte dal piccolo e non dal grande, e fa bene. E ci mette il corpo, a bilanciare tutte quelle parole così facilmente citabili. I due testi di Tarantino hanno il sentore di un altro tempo, come se il mondo fosse andato avanti nel frattempo e le parole fossero invece rimaste lì sulla carta. La scena, per esempio.

SIAMO A UN SEMAFORO di una delle tante degradate città della modernità, metti New York ma potrebbe essere qualunque altro posto. Una di quelle città liberate dal colonialismo e poi subito rioccupate dai vizi del post- colonialismo. Dice proprio così colui che parla, cioè si racconta come personaggio un po’ picaresco, con quell’intercalare ripetuto. La scena più bella è… Siamo a un semaforo dove ha avuto l’idea malsana di fermarsi perché era venuto il rosso ed eccolo lì, il lavavetri africano.
I marocchini lavano i vetri e fanno le rapine, i rom rubano e con i soldi si fanno i denti d’oro… Sono riposanti i luoghi comuni. Tolgono di mezzo il fastidio di dover mettere in conto dubbi, ripensamenti, contraddizioni. Come la mettiamo per esempio con questa Medea di Corinto che ci tiene a dire che lei non è una straniera e gira in tondo come un animale in gabbia, e infatti poi viene fuori che è ristretta in galera per un crimine che nega di aver commesso.

LE LAVAGNE girano e dall’altra parte c’è uno specchio. Ma al di là dello specchio cosa c’è? Tirati via il baffetto e la camicia gialla del precedente personaggio, l’attrice sfoggia un top coi brillantini tanto per dare un contenuto visibile al carattere della sua Medea. O forse per metterci su una falsa pista. Non sono una che fa una tragedia, dice. Alla larga da me figli e mariti. Ma intanto sbatte la testa e fracassa lo specchio a colpi di rabbia. Senza amore non si può vivere. Il ragazzone nero si è alzato. Si chiama Suleiman Osuman. Take it easy, le dice mentre si spengono le luci.