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Il dramma domestico di una genealogia

Il dramma domestico di una genealogia

Narratori tedeschi Lo scrittore nato in Carinzia arricchisce di un nuovo episodio il suo lento «ritorno a casa», sullo sfondo dello Jaunfeld: otto personaggi alle prese con l’indeterminatezza della Storia

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 maggio 2015

A mezzo secolo di distanza dal suo dirompente e provocatorio esordio sulla scena letteraria europea (I calabroni e Insulti al pubblico, 1966) e dopo aver pubblicato, nel 2008, quello che probabilmente è il suo maggiore romanzo (La notte della Morava), dal retiro francese di Chaville dove vive dagli anni novanta, Peter Handke continua a tessere le trame poliedriche – oltre alla narrativa, numerosi pamphlet, trattatelli, saggi e drammaturgie – di un’opera in costante falso movimento: da un testo all’altro, temi e situazioni ricorrenti si ripetono come in una suite dove a contare sono più le variazioni tonali che i tempi.

Al centro di questa costruzione rarefatta e dissimulata, le diverse interpretazioni di quel personaggio (non propriamente un alter ego) che in Infelicità senza desideri (1972) di sé diceva: «io non mi allontano, come succede di regola, una frase dopo l’altra, dalla vita interiore delle figure descritte, per contemplarle – liberato e solenne – dall’esterno, quasi insetti finalmente incapsulati; ma scrivendo cerco di accostarmi, con serietà ferma e costante, a qualcuno che non posso afferrare compiutamente con nessuna frase, sicché devo ricominciare sempre daccapo, senza arrivare mai all’usuale, distaccata prospettiva dall’alto».

Partendo da queste premesse, ancora oggi Handke arricchisce il suo lento ritorno a casa di tappe tanto circoscritte quanto centrali nel processo di pacificazione identitaria di un uomo cui, nemmeno trentenne, importava più vivere da scrittore che essere uno scrittore.

Nato nel 1942 in quella Carinzia che vent’anni prima, dopo un tentativo di annessione coatta da parte della Jugoslavia, aveva optato volontariamente, e con il beneplacito della Società delle Nazioni, per l’Austria, Peter Handke ha vissuto in prima persona lo scacco storico-geografico di una zona di confine in cui è soprattutto la lingua a contendersi l’appartenenza patria dei suoi abitanti: da un lato, infatti, la cultura egemone tedesca, dall’altro la minoranza slovena (per lo scrittore di Griffen tutt’uno con la storia materna) e, in mezzo, un dialetto spurio, bastardo.

Ed è proprio questa situazione che, nel 2010, per i tipi di Suhrkamp, Handke ha descritto in un testo appena tradotto in italiano da Angela Scròfina e Ylenia Carola: Ancora tempesta (Quodlibet, pp. 132, euro 15,00).

Aperto da una citazione tratta da I grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos, e concepito come testo teatrale, Immer noch Sturm (così in originale, da un verso scespiriano del Re Lear) è ripartito in cinque scene – o movimenti – in cui, su un palco con in primo piano un albero con novantanove mele e una panchina, si alternano gli otto protagonisti di un dramma domestico che concepisce il dialogo, alla maniera classica, come forma di riconoscimento. Sullo sfondo, i profili frondosi della brughiera dello Jaunfeld.

Degli otto personaggi, quello sempre presente è un anonimo «Io» (dietro il quale non si fatica a identificare, per quello che conta, lo stesso Peter Handke) che si attribuisce, significativamente, l’attributo di «discendente»; significativamente perché le altre voci appartengono tutte alla sua genealogia personale: ci sono, infatti, i nonni, la madre e i suoi quattro fratelli, Gregor detto «Jonatan», il maggiore, Valentin, il mediano, Benjamin, il minore, e Ursula, ovvero «Sneema». Dei maschi, solo Valentin è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, e di quel periodo l’io narrante, che torna indietro nel tempo insieme ai suoi famigliari, racconta l’unico episodio di resistenza partigiana svoltosi entro i confini del Reich hitleriano, quello dei «Quadri verdi», nient’altro che un «confuso e sperduto» gruppo di giovani per i quali «la guerra mondiale degli svevi – švabi, come dalle nostre parti venivano chiamati i tedeschi – non era la loro».

Pure, a meglio risaltarne il senso intimo, i riferimenti cronologici, puntuali nel testo di Handke (il 1936 ad esempio, o il ’43, anno della Terza Conferenza di Mosca, che fece esplicito riferimento alla lotta clandestina contro il nazismo in Austria), sono presto sconfessati da una deliberata indeterminatezza («oggi, nel Medioevo, o quando», «in una luce senza stagioni» o, ancora, «è trascorso del tempo, non so più quanto. Non è più buio ma neppure si è fatto giorno»).

Se come narratore – soprattutto a partire da L’ora del vero sentire, del 1975 – Handke vede per fatti, come drammaturgo vede, e dunque ragiona, per situazioni, e soltanto dalla concatenazione oggettiva dell’una nella successiva gli nasce una misura lirica apparentemente priva di emotività ma non di emozioni: le atmosfere non sono né tratteggiate né descritte, ma ciò che viene rappresentato le lascia, nella sua essenzialità, come cadere da un passato remoto di cui è inutile ricercare l’esatta collocazione temporale.

Quanto resta è solo la testimonianza, ossia la lingua: una lingua che articola tanto il discorso del potere (il tedesco) che quello della libertà (lo sloveno). Una lingua difesa, vilipesa e imbracciata come un nostalgico vessillo per tornare, di nuovo, a chiamare le cose con il loro nome; perché le cose sono la lingua con cui le nominiamo e la vita non è la Storia, ma una contraddizione, sembra dirci Handke sul finale, in cui più o meno tutti scompariamo «in mezzo e dietro gli altri, riconoscibili unicamente per il gesto della mano con cui continuiamo a salutarci».

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