Il doppio passo di Cuba
L'Avana A Roma l'economista Ramon Labañino, uno dei 5 agenti liberati da Obama
L'Avana A Roma l'economista Ramon Labañino, uno dei 5 agenti liberati da Obama
«Ni una menos? Esto sì me gusta. Anche sul Granma che si dirigeva verso Cuba, quando uno dei nostri combattenti cadde in mare, Fidel lo fece cercare. Non fu facile, era notte e c’era la tempesta, ma è stato recuperato». Ramon Labañino indica il badge dello sciopero globale delle donne, la matrioska in nero e fucsia. Circonda con un braccio le spalle della figlia e sorride: «Voglio inviare un messaggio di solidarietà e partecipazione al movimento Ni una menos – dice al manifesto – e l’adesione di Cuba socialista, libera dai femminicidi. Il cammino delle donne è il futuro del mondo». Siamo nell’ambasciata di Cuba a Roma, straripante di ospiti. Su invito dell’ambasciatrice Alba Soto Pimentel, sono venuti ad accogliere uno dei «cinque eroi», liberato dall’ex presidente degli Stati uniti, Barack Obama, dopo 16 anni di carcere.
Per Ramon e gli altri suoi compagni, condannati a più di un ergastolo per aver difeso il loro paese dalle trame degli anticastristi, vi furono mobilitazioni in tutto il mondo. La figlia di Labañino aveva raccontato al manifesto la via crucis dei famigliari e la resistenza dei prigionieri politici: in catene e per lungo tempo confinati «nel buco». Labañino, adesso, racconta episodi inediti con ironia. Appena arrivato nel carcere di Massima sicurezza, dopo un viaggio in catene di una giornata, gli tocca il colloquio in matricola per decidere il reparto di assegnazione. «Tu sei un agente di Fidel Castro? – gli chiede la guardia – Allora sei contro il presidente Bush».
Il prigioniero vuole evitare le provocazioni, ma gli tocca comunque «una settimana nel buco» e poi, l’assegnazione al reparto gestito «da un cubano» che gliene farà vedere «di tutti i colori». Labañino si prepara, pensa che avrà a che fare con la mafia anticastrista di Miami, rispolvera le sue conoscenze nelle arti marziali.
«Ma quando mi portano in quel reparto, pronto a vendere cara la pelle, mi ritrovo al cospetto di un cubano vestito come un coatto degli anni ’80 e presidiato da due guardaspalle. “Tu sei uno dei 5 di Fidel”? mi chiede. “Si – rispondo”. E quello allora mi chiama “fratello”, perché – dice – per essere rimasto con Fidel devi avere un coraggio pari a quello che ci vuole per farsi rispettare qui dentro. Quel capobanda, che mi ha dato il permesso di dire il suo nome, Alexandro Mais, ora è libero a Miami, mi manda lettere e cartoline, e mi chiede di firmargli fotografie per regalare ai suoi. Io penso che, anche in quella occasione, mi ha salvato Fidel, che non ci ha mai lasciati soli».
L’ex agente cubano, ricorda poi la morte del giovane italiano Fabio Di Celmo, ringrazia il comitato che ne porta il nome. Il ragazzo venne ucciso all’Avana il 4 settembre 1997: dall’esplosione di una bomba piazzata dall’anticastrista Luis Posada Carriles, al soldo della Cia, nel bar dell’Hotel Copacabana. I cinque agenti – spiega Labañino – erano stati inviati negli Stati uniti sotto copertura per prevenire altre stragi, che avrebbero tolto la vita anche a turisti nordamericani. Fu lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez a rivelare all’allora presidente Bill Clinton gli attentati che si stavano preparando: «una nave carica di plastico da fare esplodere in un porto, altri aerei pieni di turisti da far saltare in volo, bombe negli hotel della capitale per dissuadere chiunque dal visitare Cuba».
Labañino è venuto in Italia per un giro di conferenze su invito della Rete dei Comunisti, e ha concluso gli incontri ieri sera alla Villetta di Garbatella. A Cuba presiede l’Associazione nazionale degli economisti.
Quella di Cuba è una transizione al capitalismo?
No, stiamo imparando a migliorare il modello economico socialista alla luce dei nuovi problemi che si presentano: mantenendo ferme le grandi conquiste realizzate nel campo della salute, dell’educazione, della sicurezza. Ora l’obiettivo è migliorare il livello di vita del popolo, dargli un salario più alto, più benessere. Le condizioni sono diverse dall’89 quando siamo stati arrestati noi, quando eravamo soli e pensavamo di costruire un socialismo senza mercato. Ora, continuando a mantenere al centro l’essere umano stiamo compiendo piccoli passi, decisi democraticamente nel 7° Congresso. Un piano di sviluppo fino al 2030 in cui nessuno potrà diventare miliardario, ma stare meglio sì. Anche noi abbiamo contribuito dal carcere, suggerendo, approvando o respingendo alcune idee. Un rivoluzionario deve saper cambiare quel che dev’essere cambiato e perfezionare quel che c’è da perfezionare. È il principale lascito del nostro comandante Fidel.
Trump vuole chiudere anche gli spazi aperti da Obama. Come andrà a finire?
I media, da voi, raccontano che il bloqueo è finito perché Obama ha riaperto il dialogo con Cuba. La realtà è ben diversa, purtroppo. Le multe per le banche che commerciano con noi sono arrivate a cifre stratosferiche: 14.000 milioni di dollari, è successo di recente a una banca. Serve a dissuadere le altre. Se un prodotto ha più del 10% di matrice Usa, viene bloccato. Se una nave viene a Cuba, poi deve restare ferma 6 mesi negli Usa. Con Obama abbiamo firmato 22 accordi commerciali che rimangono inoperanti perché non possiamo usare il dollaro. Potremmo comprare alcuni medicinali, ma dobbiamo pagare in anticipo, perché le banche non concedono prestiti. I cubani che vivono negli Usa non possono inviare dollari. Alle minacce di Trump rispondiamo: da noi può venire chiunque, ma con rispetto del nostro sistema di governo, che è deciso dal popolo.
Raul Castro vuole lasciare nel 2018. Chi lo sostituirà?
Sarà sicuramente il più fedele, il più capace, il più costante difensore del nostro popolo che, attraverso le procedure democratiche dovrà anche decidere se permettere a Raul di andarsene… Ma ci sentiamo tranquilli, abbiamo una nuova leva di giovani molto preparati: non per niente abbiamo puntato tanto sull’istruzione. Avete visto quanti ce n’erano al funerale di Fidel? Sono loro il futuro di Cuba.
E il futuro dell’America latina? Con il ritorno delle destre, gli attacchi al Venezuela, anche l’integrazione latinoamericana non sembra più così solida.
Bisogna stare all’erta, infatti. Di fronte ai golpe bianchi, alle nuove ingerenze, c’è ancora bisogno del sacrificio di altri compagni come «i cinque». I processi rivoluzionari non sono irreversibili. Ma poi ritornano, se i popoli si rendono conto di quel che hanno perso: come in Argentina, in Brasile. Temer ha annunciato che per vent’anni – pensate, vent’anni – verranno tagliati i piani sociali. Questo è il capitalismo. Cuba non lascerà mai solo nessun popolo fratello. La rivoluzione non abbandona i suoi figli.
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