Cultura

Il dopoguerra della letteratura veneta

Il dopoguerra della letteratura venetaGiuseppe Berto

Scaffale «Saturnini, malinconici, un po’ deliranti» di Nicola De Cilia, per Ronzani editore

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 14 giugno 2019

La lezione è quella nota: riconsiderare il ruolo vero della cultura, uscire dalla ’letterarietà’». Partecipare alla vita: solo così si obbliga il mondo a cambiarsi… Quando la politica si fa disumana e va verso la perdizione, sono sempre gli uomini di fede che si gettano nella mischia». Non potrebbero suonare più attuali le parole di Antonio Giuriolo, uno dei piccoli maestri raccontati da Meneghello, intellettuale e partigiano, educatore costretto a rinunciare all’insegnamento perché deciso a non iscriversi al partito fascista.

NON È UN CASO che cominci dalla Resistenza il libro di Nicola De Cilia, Saturnini, malinconici, un po’  deliranti (Ronzani, pp. 242, euro 16,50), un percorso attraverso la letteratura veneta a partire dal Dopoguerra. E fin dall’inizio, quella di trovare le parole giuste per farsi ascoltare, sia con le comunità contadine che poi con l’avvento (e il tramonto) della società industriale, è una questione tanto impellente quanto spesso destinata a risultati fallimentari.
De Cilia, dopo il romanzo Uno scandalo bianco e il reportage sul rugby Pedagogia della palla ovale, raccoglie interviste, articoli, conversazioni (in alcune compaiono anche Goffredo Fofi e Gianfranco Bettin), molti di questi apparsi sulla rivista Lo Straniero e in parte già pubblicati nel testo Il Veneto che amiamo. Questo nuovo volume (curato da Maria Gregorio) è una galleria di personaggi eccentrici e umorali, da Rigoni Stern a Giuseppe Berto, da Comisso a Nico Naldini.

A FARE DA CONTRALTARE alle opere di molti scrittori veneti è sempre stato il paesaggio. Quel territorio unico, terra di acque dolci tra il mare e le montagne, che con l’avvento delle fabbriche perde la sua bellezza e il contatto con le radici, di comunità e identità prima di tutto. I luoghi che mutano riflettono le inquietudini di chi vi abita e di chi ne scrive, ovviamente. Meneghello, che ne tratta con posa nostalgica quasi a volerne salvare il ricordo, oppure Goffredo Parise, che trova il suo rifugio sul fiume e qui compone i Sillabari (la sua «Casa delle fate», a Salgareda, è stata travolta dalla piena della Piave lo scorso autunno e l’editore Ronzani, meritoriamente, destina una percentuale dei ricavi al ripristino di quel patrimonio).

OGGI QUEL PAESAGGIO è più che mai deturpato: sfigurato da una colata di cemento inarrestabile, avvelenato, riempito di rifiuti fin nelle sue viscere, ingovernato e facilmente penetrabile da organizzazioni criminali. La ricchezza e il benessere di questi anni hanno distolto l’attenzione dalle emergenze vere. E qualcuno ha continuato a denunciarlo, come Andrea Zanzotto, profeta inascoltato o come Luciano Cecchinel, che con la sua lingua rotta, aspra, ha espresso in poesia la rabbia e la disperazione che qui, inconsapevolmente, appartiene a molti. Ma in quanti si accorgeranno di quanta verità è già stata scritta?

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