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Il dolcevita della Dolce Vita

Cartelli di strada Tra le pellicole di Federico Fellini in calendario per il centenario della sua nascita non poteva mancare la rappresentazione di una certa società romana, all’avvio del boom economico, simboleggiata con […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 27 giugno 2020

Tra le pellicole di Federico Fellini in calendario per il centenario della sua nascita non poteva mancare la rappresentazione di una certa società romana, all’avvio del boom economico, simboleggiata con verosimiglianza da «La dolce vita». Che a rivederla, consente ogni volta di cogliere qualche aspetto meno esplorato o sfuggito nella visione precedente. Di quest’ultima, lungi dal ricavarne una nuova chiave di lettura, in sessant’anni di vita del film, ci si è soffermati su un dettaglio piuttosto banale ma non perciò immediatamente percepibile. L’espressione «dolce vita», ripresa dal titolo, fu adoperata, come è risaputo, per indicare un maglione la cui apertura superiore, indossandolo, si arrotolava intorno al collo.

Quel tipo di indumento non è coevo al film, esisteva già: rientrava, soprattutto, nel corredo di reparti di vari eserciti della Seconda guerra mondiale, impiegati specialmente in azioni di commando; era proprio anche del vestiario dei sommergibilisti. Ma non è questo il punto. In seguito, al maglione venne attribuito quel nome ad effetto recepito dal film di Fellini per il fatto che a indossarlo era uno dei personaggi eccentrici benché in un ruolo fugace e di contorno. E su questo aspetto c’è da fare attenzione, nelle sequenze narrative della pellicola, per potersene accorgere. Marcello Mastroianni, il protagonista, lo vediamo invariabilmente con la tenuta d’ordinanza per gli uomini dell’epoca (il film fu girato nel 1959), ossia vestito scuro, camicia bianca e cravatta a tinta unita (tranne la parte finale, in cui ha un completo chiaro con foulard annodato alla gola). Il maglione a collo alto difetta nel guardaroba degli innumerevoli comprimari, sodali del giornalista mondano Marcello (fotografi, attrici, ballerine, aristocratici, cantanti), nel loro instancabile e vacuo girovagare. Ne è estraneo alla cerchia, nonostante sia considerato un amico del protagonista, e men che meno alle vesti informali, l’austero Alain Cuny (interprete di spessore) al quale calzavano a pennello i panni dell’intellettuale in apparenza raziocinante ma profondamente, per ciò di cui si rende responsabile, problematico. Soltanto in un’inquadratura notturna che indugia sui tavolini di un bar dell’affollata Via Veneto (e dove se no?) posticcia di Cinecittà, durante l’incontro fra Marcello e il suo papà venuto a cercarlo dalla provincia, è visibile di sguincio un maglioncino a collo alto di colore scuro. Ce l’ha addosso il gaudente Pierone impersonato da Giò Stajano. Che in quella comparsata, come in altre due o tre con un pullover a V però, gli è facile raffigurare con perfetta aderenza sé stesso. Un dettaglio banale, si diceva, ma che non scappò agli svelti giovanotti di allora. E fu subito «dolcevita».

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