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Il dolce frutto della migrazione

Il dolce frutto della migrazioneAntonio Sánchez

Mentre l’ossessione per lo «straniero» raggiunge livelli di parossismo, il jazz riflette sull’argomento, rispondendo con dischi di grande rilievo. Eccoli

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 19 gennaio 2019

Nei Paesi dell’Occidente l’ossessione per i migranti ha raggiunto livelli di parossismo tanto da dettare l’agenda politica dei governi, occupare il dibattito nei media e nei social. Il tema dell’immigrazione declinato solo in negativo ha dato fiato e legittimità ad un pestilenziale miscuglio di neofascismo, populismo e suprematismo bianco. Dalle leggi di Lega e Movimento 5 Stelle al Muro di Donald Trump il cosiddetto Primo Mondo reagisce istericamente a un fenomeno di portata epocale individuando nel migrante il nuovo nemico della Nazione.

Naturale che il jazz, che delle migrazioni è stato uno dei frutti più creativi, abbia riflettuto e rifletta in musica su di esso a partire dall’esperienza concreta di uomini e donne che hanno vissuto, direttamente o indirettamente, la vicenda. Questa è l’occasione per dare conto di alcune significative opere sull’argomento.

Il nuovo lavoro discografico del batterista messicano Antonio Sánchez (1971) è interamente dedicato a questo tema. Sánchez sottolinea come egli sia stato fortunato a potersi stabilire, grazie al sostegno della famiglia, negli Stati Uniti per studiare e iniziare la sua carriera che lo ha portato a divenire un musicista affermato come collaboratore di una star come Pat Metheny, autore della premiata colonna sonora del film Birdman e leader di proprie formazioni come il quintetto Migration con il quale ha firmato il recente Lines in the Sand (CAM Jazz). Il musicista però non ha più potuto tacere di fronte alle esternazioni e agli atti del nuovo presidente degli Stati Uniti. L’indignazione è stata la molla che ha fatto scattare in lui la necessità di prendere posizione. Lo fa con un lavoro compatto e coerente, senza reticenza o ambiguità. La sua scrittura funziona per effetti cinematici e lunghe linee melodiche certamente frutto della militanza nel gruppo di Metheny e di sonorizzazione di pellicole cinematografiche ma con una cifra originale. Le sonorità (fa capolino anche il quasi dimenticato EWI, il sax elettronico) e la cifra stilistica sono quelle della fusion. Sánchez fa uso di un ampio set di tamburi e piatti per sfruttare al massimo la batteria in funzione coloristica e melodica. Tre brani, tra i quali Home, con un testo scritto dalla cantante di origini croate Thana Alexa, sono incastonati tra due suite di più di venti minuti ciascuna dove malinconia, forza e speranza sono perfettamente bilanciati.

RIVINCITA ASIATICA

Oltre ai latinos un’altra corposa minoranza negli States è quella degli asiatici. In particolare sulla West Coast cinesi, giapponesi e filippini costituiscono fin dai tempi della Conquista mano d’opera a basso costo fondamentale per lo sviluppo capitalista del Paese. Proprio da queste comunità è nato un movimento di jazzisti che hanno saputo creare una originale ibridazione tra le loro tradizioni musicali e il jazz. L’etichetta discografica Asian Improv Records ne documenta dagli anni Ottanta i lavori e molte altre incisioni hanno visto la luce sulle etichette Soul Note e Black Saint del compianto produttore milanese Giovanni Bonandrini. Tra questi il pianista Jon Jang (1954) fondatore della Pan-Asian Arkestra con evidente omaggio alla Pan-Afrikan Peoples Akestra del pianista Horace Tapscott al quale si ispira per senso comunitario, orgogliosa rivendicazione identitaria e una scrittura che fa incontrare musiche etniche e free jazz.

Island: Immigration Suite no.1 (Soul Note, 1997) vede all’opera un ottetto con piano, voce, sax, violoncello, percussioni e gli strumenti cinesi pipa, ehru, zhonghu e guanzi. La suite contiene liriche di Genny Lim, Him Mark Lai, Judy Jung. Jazz poetry vigoroso che si concede anche di citare, hendrixianamente, l’inno americano. L’autore merita di essere approfondito almeno con l’ascolto di Two Flowers on a Stem (Black Saint, 1996) con il flautista James Newton e il sassofonista David Murray che contiene significativamente una versione della mingusiana Meditation on Intregration.

Dal’altra parte degli Usa, sulla costa est, sono il violinista Jason Kao Hwang e il sassofonista Fred Ho i capofila del movimento.

Jason Kao Hwang (1957) è emerso nella scena dei loft jazz con il quartetto Commitment insieme al bassista William Parker per poi dirigere propri gruppi con i quali ha sperimentato la fusione tra strumenti della tradizione cinese e di quella jazzistica, scrittura accademica e improvvisazione. Fenomenale il suo progetto Burning Bridge del quale è appena stato pubblicato Blood (True Sound), sui traumi postbellici. Ha scritto, nel 2005, un’opera dedicata all’esperienza dell’immigrazione cinese: The Floating Box: A Story in Chinatown (New World Records).

Fred Ho (1957-2014) è stato musicista, compositore, militante politico, sociologo marxista. Dai quartetti di sax alle Big Band la sua musica irruenta e appassionata ha regalato composizioni emozionanti e innovative. Scrittura e conduzione erede della lezione mingusiana e immaginario fumettistico. Ha incorporato l’opera cinese con il free jazz. Composto per balletti e creato progetti multimediali di scrittura/narrazione/musica. Un vero gigante.

Nel disco del 1993 The Underground Railroad to My Heart (Soul Note) c’è una sua versione della celebre canzone scozzese Auld Lang Syne, immancabile inno che festeggia il Capodanno nei paesi anglosassoni. Ho fa salutare il Nuovo Anno in cinese, inglese e spagnolo come dichiarazione in favore del multilinguismo.

MINORANZE

La rivendicazione della dignità delle minoranze passa sempre attraverso la (ri)appropriazione della lingua. E la lingua, prima ancora che significato, è suono. Non è un caso infatti che l’altosassofonista di origini indiane Rudresh Mahanthappa (1971) abbia pubblicato nel 2004 Mother Tongue (PI Recording), con l’obiettivo di declinare musicalmente le tante lingue parlate in India. Una risposta all’immagine coloniale di un indistinto e uniforme indiano esotico. Nel quartetto ci sono anche il pianista Vijay Iyer, che oggi è una figura di primo piano del jazz internazionale, il bassista François Moutin e il batterista Elliot Humberto Kavee.

Dall’altra parte dell’Atlantico l’esperienza più rilevante di un jazz nato dalla migrazione è quello della diaspora sudafricana. A partire dagli anni Sessanta musicisti bianchi e neri fuggono dalla opprimente follia dell’apartheid. Abdullah Ibrahim, già Dollar Brand, e Hugh Masekela negli States, Chris Mc Gregor, Harry Miller, Sean Bergin, Mongezi Feza, Johnny Dyani, Dudu Pukwana, Nikele Moyake, Louis Moholo in Europa e in particolare a Londra. Qui daranno vita a una delle stagioni più entusiasmanti del jazz britannico suonando con musicisti come Keith Tippett e Elton Dean. I ritmi e le melodie delle township sudafricane incendiate con il free jazz. Poi una serie di lutti e morti premature hanno falcidiato la piccola comunità. Il contrabbassista bianco Harry Miller, morto in un incidente automobilistico a soli quarantadue anni, ha composto un brano che condensa come pochi il sentimento di chi vive la condizione di esule: Lost Opportunities. Una invettiva politica in un inno alla vita. Una commemorazione per le opportunità perdute in ogni angolo del mondo da generazioni di uomini e donne oppressi da violenza, guerra e razzismo. Il batterista Louis Moholo-Moholo (1940), il solo ancora in vita dei gloriosi Blue Notes, continua a suonarlo. In un concerto catturato al Cafè Oto di Londra nell’aprile 2017 (Louis Moholo-Moholo Five Blokes, Uplift the People, Ogun) ne dà una vigorosa versione. Perché è ancora tempo di ricordare a quanti se ne fossero dimenticati il dolore degli esuli di ogni latitudine e momento storico.

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