Il “docente esperto” meritevole di privilegi e potere
La proposta Laddove questo sistema viene applicato, come in Francia, il clima cooperativo fra colleghi è stato sconvolto. Lo stress imposto dalla cultura aziendalista della performance finisce per diminuire anziché aumentare la qualità del lavoro.
La proposta Laddove questo sistema viene applicato, come in Francia, il clima cooperativo fra colleghi è stato sconvolto. Lo stress imposto dalla cultura aziendalista della performance finisce per diminuire anziché aumentare la qualità del lavoro.
L’idea di riforma del ministro Bianchi sul “docente esperto”, anziché innalzare gli stipendi dei professori italiani al livello di quelli degli altri paesi europei, premiando così i loro meriti non riconosciuti, introduce un moderato aumento di stipendio per 8000 insegnanti dopo nove anni di formazione obbligatoria. Ovviamente i vincitori della competizione assumeranno anche un ruolo gerarchico privilegiato, proprio mentre nelle università da tempo si discute di introdurre il ruolo unico.
Laddove questo sistema viene applicato, come in Francia, il clima cooperativo fra colleghi è stato sconvolto. Lo stress imposto dalla cultura aziendalista della performance finisce per diminuire anziché aumentare la qualità del lavoro.
Quando perciò Enrico Letta sostiene che il “docente esperto” va stralciato dal “Decreto Aiuti” e vanno invece alzati gli stipendi dei docenti alla media europea, promuove una causa sacrosanta. Peccato però che – assieme ad altre proposte volte a gratificare i bisogni e i meriti diffusi e non a privilegiare presunte eccellenze – lo faccia solo ora, in campagna elettorale, sicuro della sconfitta.
La campagna è peraltro condotta in nome dell’agenda Draghi, culturalmente improntata all’aziendalismo meritocratico di Giavazzi e della McKinsey, a cui l’idea del docente esperto si rifà: prova ne sia la candidatura da front-man di Carlo Cottarelli, che della cultura della competizione è un convinto portavoce. Sono queste contraddizioni che tolgono credibilità al Pd e alla tradizione costituzionale e antifascista che vorrebbe rappresentare, impedendone l’espansività e il radicamento popolare. Ma per capire meglio e andare alla “fonte” della regressione, è importante precisare bene la differenza fra merito, eccellenza e meritocrazia.
Merito indica il talento irripetibile di ognuno, il contributo che i soggetti forniscono alla comunità e le competenze specifiche che maturano nel tempo. Eccellenza introduce invece una dimensione di grado, individuando fra i meriti quelli che meritano di più secondo criteri soggettivi e condizionati dal tempo e dallo spazio, definendo una gerarchia di valore. Meritocrazia è più complessa: indica una società in cui l’eccellenza, nonostante la sua soggettività, conferisce non solo riconoscimento (sia simbolico che di ruolo) bensì anche risorse tali da configurare un divario in termini di diritti e privilegi: in tal modo il kratos non è più nel popolo (nel costituzionalismo democratico metafora della condivisione fra tutti i soggetti del potere), bensì in coloro che vengono reputati i migliori.
In Europa, nata con significato negativo e distopico, la parola ha iniziato ad assumere valenza positiva solo nel nuovo millennio, con l’idea dominante che lo Stato non dovesse più intervenire contro le diseguaglianze, bensì a favore della concorrenza. Chi “ce la fa” diventa il meritevole che detiene privilegi e potere.
In Italia il termine meritocrazia ha assunto una valenza positiva per un motivo supplementare e cioè perché viene diversamente utilizzato per significare un sistema in cui i posti pubblici e in generale i ruoli lavorativi siano assegnati secondo i meriti e le competenze. Ma ciò non ha a che fare con la meritocrazia come assegnazione di potere eccedente rispetto a quello attribuito per l’adempimento di un determinato ruolo, se non per il fatto che spesso viene individuata nel mancato riconoscimento del merito la radice dei problemi sociali che invece vanno piuttosto ricondotti alle politiche sociali ed economiche.
Il disagio morale che comprensibilmente promana dal mancato rispetto di regole comuni, anche per gli aspetti corporativi e dissipativi che hanno caratterizzato la via mediterranea al welfare state, diventa quindi insofferenza per i dispositivi di redistribuzione, bollati come “assistenzialistici” in quanto non collegati a meccanismi competitivi. Si invocano interventi in forma soltanto selettiva e “meritocratica”, in quanto la modalità universalistica premierebbe anche il presunto demerito con nocumento alla produttività.
La “meritocrazia” diventa così l’alibi per non aumentare la spesa sociale.
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