Tra le migliori cose viste finora alla Quinzaine des réalisateurs c’è un film israeliano, Le Procès de Viviane Amsalem. Una donna si presenta davanti ad un tribunale per reclamare il divorzio. I giudici le domandano il motivo che la spinge a chiedere la dissoluzione del matrimonio. Lei risponde che da tre anni è separata dal marito, che non ama più e con il quale non ha più intenzione di convivere. Il tribunale si rivolge allora al marito. È disposto ha concedere il divorzio alla donna e a ripudiarla ? Risposta: «no». Il tribunale non può far nulla. La donna deve tornare con il marito.

Comincia così l’odissea di Viviane alla ricerca della propria libertà. O meglio dovremmo dire ricomincia, visto che la bravissima Ronit Elkabetz interpreta il personaggio di Viviane per la terza volta. Le Procès è in effetti l’ultimo capitolo di una trilogia che Ronit ha scritto e diretto con suo fratello Shlomi i cui primi due capitoli, in cui ritroviamo la stessa compagnia di attori (tutti eccezionali) sono: Prendre femme (2004) e Les Sept jours (2007). Ancora una volta, gli Elkabetz inventano una storia assolutamente realista, ma che appare assurda a chiunque ignori le leggi di Israele, dove il matrimonio civile non esiste, dove solo il rabbino può pronunciare o sciogliere un’unione e dove il marito ha l’ultima parola davanti ad un tribunale rabbinico, vale a dire interamente maschile, che in ogni caso prima ancora di schierarsi dalla parte dell’uomo, difende tenacemente l’imperativo più antico del popolo ebraico: moltiplicare i figli di Israele. Accanto a questo imperativo, ci sono gli usi, i costumi e le incredibili interdizioni che regolano la vita della comunità sefardita e che ne definiscono l’unicità.

 

Gli Elkabetz giocano con i codici di questa comunità, alla quale essi stessi appartengono, con grande intelligenza. Tutto il film si svolge nell’aula, spoglia e angusta, del tribunale rabbinico dove, udienza dopo udienza, sfila una piccola folla di amici, parenti. Il processo si svolge in ebraico, ma i testimoni si esprimono volentieri nelle due lingue diffuse nel Magreb da cui sono originari: il Francese e l’Arabo. Il marito di Viviane, per esempio, preferisce il Francese all’ebraico quando si tratta di discutere questioni che ritiene triviali. Il fratello di Viviana parla in ebraico, ma poiché prende le parti del cognato, rivolgendosi alla sorella cerca di indorare la pillola con la lingua araba, che è quella delle origini e della famiglia. I rabbini ovviamente si esprimono solo in ebraico. Ma l’ebraico non è solo la lingua della legge e della religione, è anche quella dell’avvocato laico e cosmopolita che difende Viviana, che la usa appunto per distinguersi dalla babele delle identità sociali e etniche degli altri. Il film gioca anche con due registri opposti, quello drammatico che deriva dalla situazione di Viviana e quello comico portato dalla vivacità dei testimoni. Entrambi contribuiscono tratteggiare con toni kafkiani la vicenda di questa donna prigioniera della legge.