Purtroppo la comunicazione accademica è sempre più isolata dal punto di vista territoriale e disciplinare: gli studi di storia e cultura italiana hanno delle punte avanzate all’estero ma per autoreferenzialità e provincialismo restano sconosciuti da noi. Benemerita dunque la traduzione dell’importante studio politico-culturale di Giorgio Bertellini, laureato alla Cattolica di Milano e ora professore di storia del cinema ad Ann Harbor, Il Divo e il Duce Fama, politica e pubblicità nell’America degli anni Venti (Le Monnier, pp.400, € 29,00).

Il testo analizza la contemporanea popolarità di Rodolfo Valentino e Benito Mussolini negli anni Venti negli Stati Uniti, con un’accurata indagine storica su fan magazines e biografie ed esplorando cineteche e archivi. Bertellini focalizza non tanto i personaggi quanto coloro che ne costruiscono l’immagine, condizionandone la ricezione negli Stati Uniti.

Fan del cinema americano, così dinamico e popolare, giornalista e abile creatore di slogan, Mussolini intuisce presto la funzione della celebrity, come dimostrano le foto dei suoi incontri con divi americani, ai quali elargiva una propria foto autografata, e non viceversa. L’immagine di Mary Pickford, Douglas Fairbanks e amici a Los Angeles, col braccio alzato nel saluto fascista in un party in piscina nel 1927, secondo Bertellini individua due fenomeni: «il crescente peso politico di figure celebri dello spettacolo e la speculare crescita della portata culturale di leader politici, percepiti come autorevoli o autoritari».

Dopo la prima guerra mondiale si ha un forte sviluppo delle comunicazioni di massa con l’elaborazione pratico-teorica delle tecniche pubblicitarie, che impattano sul cinema, sul giornalismo popolare e in politica. Il contesto storico di queste trasformazioni però non era affatto favorevole al «successo» dell’immagine dei due italiani in America. Infatti, mentre permaneva nella upper class la passione per l’arte e la cultura italiane, si scatenava il pregiudizio razziale contro gli emigrati italiani (soprattutto meridionali, considerati «non del tutto bianchi») che portava a una severa restrizione delle quote immigratorie e alla condanna a morte di Sacco e Vanzetti.
Dopo la Marcia su Roma la diplomazia americana in Italia (l’ambasciatore Child) e quella italiana negli Stati Uniti (l’ambasciatore Caetani) supportano Mussolini, proponendolo come un leader virile, in grado di domare un’Italia «donna», disordinata e malata. Herbert Howe, giornalista cinematografico che apprezzava Mussolini ed è stato ghostwriter di Rodolfo Valentino, li presenta quali celebrità mediatiche, esaltando la virilità passionale di Valentino-sceicco e l’immagine dell’«uomo forte» Mussolini.

Dopo il tango nei Quattro cavalieri dell’apocalisse (1921), Hollywood costruisce Rodolfo Valentino come figura maschile transnazionale che seduce le donne, talvolta con la violenza. Il successo di questa immagine rivela l’inammissibile desiderio di autorità del pubblico americano, spaesato di fronte alla cultura di massa e affascinato da una virilità straniera. Bertellini suggerisce persino che la scandalosa accusa mossa a Valentino dal Chicago Tribune nel 1926, di essere un «piumino di cipria» che stava femminilizzando il modello maschile americano con la sua eleganza sartoriale e l’uso di braccialetti, alla quale l’attore rispose proponendo un incontro di boxe, sia stata una trovata pubblicitaria del distributore de Il figlio dello sceicco. Analogamente si spiega la simpatia americana nei confronti del muscoloso leader Mussolini, che dura fino alla guerra di Etiopia, sostenuta dalla biografia scritta da Margherita Sarfatti e dalla stampa conservatrice.

Il carisma dei due personaggi giustifica in parte questi fenomeni divistici, ma dietro a essi c’erano press agents, consulenti, esperti di marketing, a volte assai cinici. L’imponente funerale di Valentino con le camicie nere che depositarono sulla bara del divo (che si era detto invece antifascista) una corona di fiori a nome del Duce e la proclamazione della fine dell’embargo italiano dei suoi film, determinato in precedenza dalla sua decisione di prendere la cittadinanza americana, furono progettati mentre il giovane attore stava morendo.

La politica infatti stava imparando a utilizzare i media moderni: Mussolini giornalista, abile creatore di titoli e slogan, è presente nel primo cinegiornale sonoro della storia del cinema, The Man of the Hour (1927), in cui si rivolge direttamente al pubblico americano in inglese e in italiano. In un momento in cui il dibattito sul legame tra populismo e media diventa sempre più tedioso, rammentiamo quindi le conclusioni di Bertellini: «la popolarità di personaggi iconici indebolisce gli ideali della democrazia diretta a favore di rappresentazioni carismatiche».