Visioni

Il divo alla prima persona

Il divo alla prima persona

Festival «Listen to Me Marlon», tra vita e cinema il film di Stevan Riley presentato a DocLisboa. Da ricordi della madre agli Oscar, una biografia scandita dalle parole di Brando

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 30 ottobre 2015

Una Bette Davis non più giovanissima, i capelli raccolti dentro un improbabile copricapo appuntito e tempestato di paillettes, sta annunciando al pubblico degli Academy Awards il nome del miglior attore dell’anno, il 1954. Sul palco chiama Marlon Brando, giunto all’apice della fama coronata proprio dall’Oscar per il suo ruolo in Fronte del porto. È un passaggio di consegne tra la vecchia e la nuova guardia di Hollywood, lo spartiacque del «prima e dopo Brando». Miglior attore della storia, uomo più bello di tutti i tempi e star più infelice di sempre: Marlon Brando ha ricevuto centinaia di etichette, decine di libri e documentari sono stati realizzati sulla sua leggenda e lui stesso vi ha contribuito con una non memorabile autobiografia pubblicata circa dieci anni prima della sua morte, nel luglio 2004.

 
Guardando Listen to Me Marlon di Stevan Riley – in anteprima europea questi giorni al Festival DocLisboa – scopriamo però che nel corso della sua vita l’attore ha anche registrato centinaia di ore di conversazione con se stesso in cui parla di tutto, dal rapporto con la famiglia ai film della sua carriera fino al suo amore per Tahiti. Sullo schermo scorre un tradizionale montaggio di immagini e filmati di repertorio, uniti alle sequenze più famose dei film in cui ha recitato. Ma la guest star d’eccezione è Brando stesso, voce narrante di un documentario che non svela misteri e non aggiunge nessuna particolare scoperta a ciò che già sapevamo, ma che ci offre l’opportunità di ripercorrere la sua vita attraverso le sue parole, nell’intimità che solo una conversazione com se stessi può offrire.

 
Nato a Omaha, Nebraska, l’attore ricorda con amore la madre – per sua ammissione «l’ubriacona del paese» – e le foglie larghe di un olmo alla cui ombra giocava da piccolo. Ma presto arriva New York, il Metodo e Stella Adler, la prima, racconta, a credere in lui: «Mi disse non avere paura ragazzo mio. Hai diritto a essere chi sei, come sei e nel posto in cui ti trovi». Da giovane Brando registra questi soliloqui pensando che un giorno potranno servire a un documentario: parla di tutto, l’arrivo della fama e la rivoluzione portata dal suo modo di recitare. «Prima gli attori erano come i cereali della colazione, gli stessi in ogni ruolo». Bogart, Cooper, Gable: la gente sapeva in anticipo cosa avrebbe visto.

39VISDXaperturas020-maria-schneider-theredlist

Brando al contrario dice di voler essere come un pugile, con cui «non sai mai da che parte arriverà il colpo». Quello che adesso gli attori raccontano sempre di aver fatto per prepararsi al ruolo lui lo aveva messo in pratica prima di tutti. Per il suo film d’esordio Il mio corpo ti appartiene passa dei mesi insieme a veri invalidi su una sedia a rotelle.
E poi ci sono gli aspetti privati, su tutti l’amore per le donne, la frenesia delle sue conquiste. Nelle parti tagliate delle conversazioni televisive degli anni Cinquanta fa una corte spietata alle intervistatrici, con il sorriso arrogante e l’erotica insolenza di cui già parlava nella sua indimenticabile intervista Truman Capote, che a differenza di quelle giornaliste imbarazzate non faceva segreto del desiderio suscitato da quel corpo e quel viso di una strana perfezione.

 
Poi arriva il declino, i film fatti per soldi, e di nuovo l’impennata: Bertolucci e Coppola, Ultimo tango a Parigi, Il Padrino, Apocalypse Now – «Ho dovuto riscrivere completamente la parte di Kurtz», dice mentendo un po’ perfino a se stesso. E le tragedie private: la condanna a dieci anni del primogenito Christian per omicidio e il suicidio della figlia Cheyenne – tragedie su cui si soffermano più i filmati d’archivio della narrazione di Brando, che anche parlando tra sé è parco di commenti sulla disgrazia che ha colpito la sua casa.

 
La voce gli si spezza però per Martin Luther King, di cui è stato compagno nella battaglia per i diritti civili che ha occupato tanta parte della sua vita, e per cui si è speso con coraggio più che in qualunque altra cosa.

 
Invecchiando, Brando esprime un’opinione diversa riguardo alle sue registrazioni: sono autoterapeutiche, dice, e raccomanda a sé stesso: «Lasciati andare, Marlon». E per trovare sollievo torna col pensiero non ai tappeti rossi di Hollywood ma all’ombra sotto le foglie larghe dell’olmo di Omaha.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento