Nonostante l’enfasi egalitaria che aveva portato il Movimento 5 Stelle a raccogliere consensi, con il correlato appello ai «giovani», e nonostante l’immancabile richiamo nelle dichiarazioni e nei proclami del Pd a ridurre le disuguaglianze, il divario generazionale negli ultimi anni si è fatto sempre più largo, come si può rilevare dai recenti dati pubblicati dalla Banca d’Italia sulla distribuzione di reddito e ricchezza. Le tendenze di lungo periodo, infatti, appaiono drammatiche e mostrano un quadro di immobilità consolidata che non pare conoscere mutamento.

Se un tempo appariva fisiologico che il reddito di un individuo andasse aumentando con gli anni, oggi si assiste a una «forbice» che non è più normale. Se guardiamo al reddito familiare medio secondo l’età del «capofamiglia», considerando le due classi degli «under 30» e degli adulti tra 51 e 65 anni, risulta che quello dei primi era inferiore a quello dei secondi di appena il 3,3% nel 1987 e del 30,4% nel 2020.

Le retribuzioni orarie medie da lavoro dipendente dei giovani, che nel 1987 erano del 22,3% inferiori a quelle degli adulti, nel 2020 lo erano del 33,5%. E i redditi medi da lavoro dipendente dei giovani rispetto agli adulti sono passate dal 23,7% (in meno) del 1987 al 37% del 2020.
Tale andamento è il risultato di un peggioramento della distribuzione del reddito che ha penalizzato i giovani più degli adulti.

L’indice di disuguaglianza di Gini calcolato sulla distribuzione interpersonale del reddito, che nel 1991 aveva visto un minimo del 28,8% si è riportato su valori superiori al 35% fino al 2020. Il 10% delle famiglie più povero ha oggi un reddito inferiore a 11.730 euro lordi annui, complessivamente pari a meno del 2% del reddito nazionale totale. Viceversa, il 10% più ricco ha un reddito annuo superiore a 2.385.705 euro, corrispondente al 33,7% del reddito totale. La metà più alta del reddito nazionale è percepita dal 20,8% della popolazione. Tuttavia, il divario generazionale appare anche in questo caso: tra gli «under 34» il 21,3% si trova nel quinto dei percettori di reddito più poveri, mentre tra gli adulti di 55-64 anni, solo il 16,9% si trova nel quinto più povero. Nel quinto più ricco vi sono il 12,6% dei giovani «under 34» e il 29,7% degli adulti 55-64.

Il divario generazionale appare ancor più evidente se si guarda alla ricchezza netta, ovvero al patrimonio. Negli ultimi 30 anni, le consistenze patrimoniali dei giovani sono andate progressivamente allontanandosi da quelle degli adulti. La ricchezza netta familiare mediana dei giovani, nel 1987, era il 61,8% di quella degli adulti; nel 2014 era addirittura diminuita fino al 6,9% di quella, per tornare a salire fino al 37% del 2020. Rispetto agli anziani, poi, il rapporto si è addirittura invertito. Nel 1987 la ricchezza mediana dei giovani era il 126,7% di quella degli anziani; nel 2014 era scesa all’8,1%, per tornare al 46,5% nel 2020. Il fatto è che la concentrazione della ricchezza è via via aumentata: l’indice di Gini calcolato sulla ricchezza è passato dal 59,3% del 1991 al 68,2% del 2020.

La concentrazione della ricchezza è, a tutti gli effetti, la fotografia di quanto la struttura della nostra società si sia fatta piramidale, ma rovesciata. Il quinto della popolazione più povero possiede un patrimonio il cui valore massimo è di 30 mila euro, lo 0,2% del valore totale della ricchezza del Paese. Il quinto più ricco possiede un patrimonio il cui valore minimo è di 162 milioni di euro, il 70,5% della ricchezza totale. Tuttavia, mentre tra i giovani (under 34) il 32,8% sono nel quinto più povero, tra gli adulti nel quinto più povero ce n’è solo il 13,9%. Viceversa, nel quinto più ricco si trova solo l’11,7% dei giovani e il 26% degli adulti.

L’ampliamento del divario tra giovani e adulti, tuttavia, non è cosa recente e inizia già negli anni Novanta. Per certi versi, anzi, è da allora che si mantiene più o meno costante (gli anni peggiori sono quelli tra il 2008 e il 2016). La diminuzione della tassazione sui capitali, la deregolamentazione del mercato dei capitali, l’off-shoring e la crescita delle multinazionali sono tutti fattori che hanno contribuito da un lato a un aumento dei redditi da capitale – profitti, rendite, remunerazione dei capitali, affitti e leasing, capital gains – rispetto ai redditi da lavoro e dall’altro a un aumento della loro concentrazione nelle mani e tasche di pochi, grazie alla crescita delle imprese più grosse (un tempo chiamate monopoli, oggi di fatto oligopoli), all’ereditarietà e alla trans-nazionalità (che consente evasione ed elusione fiscale «alla grande»).

Tendenze, queste, cavallo di battaglia delle destre, cui né le politiche di Pd né tantomeno quelle del M5S hanno mai opposto nulla che non fosse l’idea di lasciare che fossero i liberi mercati a garantire il «benessere», perché più “efficienti”. Che oggi ci mostrano come questo non sia un paese per giovani non perché vi sia un conflitto generazionale in atto ma perché non si è fatto poco o nulla per arginare la concentrazione del reddito e della ricchezza.