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Il disagio stradale in tre piccoli episodi romani

Q uando diciamo che in strada si fa una vita da schifo non stiamo esagerando. Lo vediamo tutti ma farlo proprio è difficile per il meccanismo psicologico della rimozione. Qui […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 maggio 2018

Q uando diciamo che in strada si fa una vita da schifo non stiamo esagerando. Lo vediamo tutti ma farlo proprio è difficile per il meccanismo psicologico della rimozione. Qui voglio proporre tre piccoli episodi degli ultimi giorni, due con me come osservatore privilegiato e uno che vede un altro ciclista urbano come testimone. Le scene si svolgono a Roma. Mostrano, a mio parere, «lo spostamento dell’asse della normalità», secondo la recente definizione di una ciclista urbana.

Primo episodio. Tra piazza di Santa Maria Maggiore e piazza Vittorio, municipio centrale, c’è la via Carlo Alberto, generalmente utilizzata come parcheggio anche dai pullman turistici, ovviamente in doppia fila. Giovedì scorso la via era ristretta non solo dall’usuale bus privato ma anche, dall’altro lato, da due mezzi della locale azienda di raccolta rifiuti. In mezzo rimaneva uno spazio esiguo, una sorta di chicane. All’atto del presentarmi in bici per il passaggio nel budello rimasto fronteggio una vettura, una di quelle larghe e lucide del sistema Noleggio con conducente. L’autista si ferma e dal finestrino aperto emette la seguente stentorea frase: «Ahò, ma che nun lo vedi che stai a blocca’ er traffico?». Seguono contumelie eccetera.

Secondo episodio. È domenica, sto andando verso l’Appia Antica per l’assemblea di Salvaiciclisti Roma, convocata come di consueto nel magnifico scenario della valle della Caffarella, casale di Vigna Cardinali, un luogo magico. Il resto d’Italia non lo sa ma dagli anni ’90 nei giorni festivi la Regina delle vie è inibita al traffico privato, divieto ovviamente deriso dalle migliaia di mezzi che la percorrono. Inoltre la via di Porta San Sebastiano che connette il centro con l’inizio dell’Appia è da qualche anno vietata al transito «tranne diretti aree interne» (un’ambasciata, la villa di un famoso attore premio Oscar e altre cosette di vario generone romano). Anche questo divieto viene percepito dai romani come un simpatico scherzo. Quando si supera l’antico arco di Druso, che può essere oltrepassato secondo le attuali regole esclusivamente da trasporto pubblico, pedoni e bici, ci si affaccia sull’Appia, qualche metro dopo le mura Aureliane. In questo caso – più miracolo che miraggio – vedo dei vigili urbani, oggi chiamati polizia locale. Parlo brevemente con uno degli uomini di pattuglia: «Oh che bello, quindi state multando tutti questi che passano, vero?». L’uomo mi guarda e replica: «Non abbiamo personale». «E lei chi sarebbe?», balbetto. Lui si volta e smette di considerarmi.

Terzo episodio. Un mio amico porta in bici il figlio al centro sportivo del Coni (il Coni, ripeto). L’ultima volta non lo fanno entrare perché l’accesso è stato di recente vietato alle bici e riservato alle automobili con permesso. Battibecco, richiesta di colloquio con la direzione, colloquio con la direzione. Dialogo che si mostra surreale: secondo la direttrice gli atleti devono poter entrare in macchina fino alla porta della palestra/spogliatoio e percorso inverso per non affaticare/raffreddare i muscoli. In bici invece no e basta. Segue post informativo (il mio amico è parte del cicloattivismo romano e sa come diffondere le vicende che gli capitano in bici), poi ripreso qui e lì. Finché, il lunedì successivo, non lo raggiunge una telefonata del presidente del Coni, Giovanni Malagò in persona, che con gentile ironia racconta di aver avuto la domenica rovinata dalle continue telefonate di chi gli chiedeva ragione di una tale follia, e prometteva («sulla mia parola») che suddetta follia sarebbe cessata immediatamente. Siamo ancora in attesa che ciò accada.

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