Si può raccontare la vicenda della musica contemporanea come una continua ricerca di autonomia. Di autonomia della musica tra le diverse arti. L’affrancamento dalla tonalità considerata il centro di un’opera musicale dopo l’avvento del sistema temperato è stato un passo importante in questo viaggio verso la libertà. Ma un altro «obbligo» era subentrato, anzi due: quello dell’atonalità a tutti i costi e quello molto codificato del sistema dodecafonico. Le rivolte che si sono succedute negli ultimi decenni nel mondo musicale hanno preso non una strada ma mille strade, si sono orientate verso una molteplicità di forme e di non-codici. Atonalità e passaggi tonali si sono succeduti o intrecciati nelle opere di tanti autori, le musiche microtonali o micropolifoniche hanno caratterizzato molta produzione da Ligeti a Haas, il minimalismo e i richiami a culture musicali extraoccidentali (di tutto il mondo) oltre alle varianti di genere sono ormai consuetudine ma non abitudine. Ma tutto questo aggiunge un valore al filone di una collocazione della musica come fenomeno non derivato da altri fattori (il testo letterario, per esempio) o che rimanda per forza ad altri fattori (la descrizione naturalistica, il linguaggio parlato, il linguaggio verbale, per esempio). Sul tema scrivono da ben diverse angolature due studiosi che sono anche compositori. Alessandro Melchiorre in Testo e suono (Lim), dopo aver citato l’ipotesi che la musica sia stata originata dalle parole, dal parlato, percorre la strada dell’affrancamento di questa arte dai testi scritti, e, partendo da Schumann, la strada del riconoscimento anche dell’autonomia delle due arti, musica e letteratura, nei casi in cui siano accoppiate in una certa opera. Perché lo scopo del libro è già nel sottotitolo: Musica come qualcosa «che solo coi suoni si può dire». Francesco Rampichini, invece, in un volume delle Zacinto Edizioni intitolato Il pasto di Kronos, il sui sottotitolo è Musica e linguaggio. Antidoti a un’aporia analogica, si occupa anzitutto di negare che la musica sia linguaggio, cioè che descriva qualcosa, significhi qualcosa, oltre il suo essere un insieme di suoni tale da suscitare percezioni e fantasie del tutto speciali, cioè originate dai suoni. A questo autore si chiede, al di là di un certo dottrinarismo nel circoscrivere il senso del termine linguaggio (l’uso è diventato nel tempo molto estensivo, magari abitudinario, e questo certo non va) se la percezione della musica, considerata del tutto come fenomeno autonomo, non può essere collegata alle idee, ai conflitti delle idee in un dato tempo storico. Qui la discussione potrebbe essere appassionante.