Il diario di un’estate
Al cinema «Mektoub My Love: Canto uno» rimontato dopo la prima a Venezia, segue un gruppo di ragazze e ragazzi tra spiaggia e amori clandestini nello sguardo «voyeur» di Amin, alter ego del regista.Kechiche si incolla ai corpi per anestetizzarli, l’epifania è altrove
Al cinema «Mektoub My Love: Canto uno» rimontato dopo la prima a Venezia, segue un gruppo di ragazze e ragazzi tra spiaggia e amori clandestini nello sguardo «voyeur» di Amin, alter ego del regista.Kechiche si incolla ai corpi per anestetizzarli, l’epifania è altrove
Filmare ad altezza di natiche (femminili) è un punto di vista come un altro, si dice che sia un «fantasma» maschile, il culo, di certo – senza generalizzare – è un’ossessione per Abdellatif Kechiche. E se Truffaut diceva che il mondo si misura con le gambe delle donne, Kechiche lo riconduce a quella forma tonda sia nelle umiliazioni dell’esotismo occidentale (Venere nera) che nella chiappa schiaffeggiata in un amplesso lesbico (La Vie d’Adele). Mektoub My Love: Canto uno, rimontato dopo la «prima» a Venezia, ne celebra l’apoteosi: un’immersione per tre ore in curvature tonde di donne scandisce il primo capitolo di quella che dovrebbe diventare una trilogia. È lì, sul culo, che l’occhio del cineasta si incolla, tipo la nuca negli epigoni dei Dardenne, e dalla prima scena sembra dichiarare il desiderio di tuffarsi in mezzo ai corpi: un giovane uomo e una ragazza fanno l’amore, noi li «guardiamo» dalla finestra attraverso gli occhi di Amin, studente di cinema e di fotografia. Subito il film si allontana dalla sensualità, è invece questo sguardo a racchiuderne il punto di vista, e la posizione del regista, che è fin troppo facile identificare con il personaggio di Amin, narratore del mondo intorno a sé, che all’immersione nel flusso del vissuto predilige l’osservazione, la posizione di «voyeur». Ed è un film voyeur Mektoub My Love, che all’amore antepone la maestria (del filmare), la posa plastica al desiderio.
I due dell’inizio sono Tony (Salim Kechicouche) e Ophélie (Ophélie Bau), amici da quando erano bambini, ora amanti clandestini , l’involontario «testimone» è Amin (Shain Boumedine), il cugino di Tony, tornato dopo qualche tempo passato a Parigi, la madre lo rimprovera perché passa le sue giornate chiuso in casa quasi portandosi dietro il grigio parigino.. È estate, siamo a Sète, nel sud della Francia, sulla spiaggia ragazzi, ragazze e vacanzieri vogliono divertirsi, lasciarsi andare al tempo sospeso delle vacanze, agli incontri, agli amori, al sesso. Amin, ritrova gli altri della famiglia, la bella zia Camélia (Hafisa Herzi), Tony è un seduttore sfrontato, Ophèlia ride, le altre, dice, sono solo «coperture». Al mare Tony e Amin conoscono Céline e Charlotte, due ragazze di Nizza, Charlotte perde la testa per Tony.
Le mattine sono i riti della spiaggia, le chiacchiere, i pettegolezzi; le notti l’alcol, la discoteca, le coppie che nascono e si dissolvono. Amin osserva, raccoglie le confidenze, con la sua macchina fotografica cerca di cogliere un istante unico, una luce speciale: un’epifania.
All’origine di Mektoub My Love c’è il romanzo di François Begadeau, La blessure, la vrai che Kechiche dice di avere letto più volte, nella distanza narrativa il regista dissemina il proprio universo cinematografico, Cous Cous leggiamo sul motorino di Tony parcheggiato nel giardinetto di Ophelia – e allo stesso modo che in quel film, di cui ritrova la protagonista Hafsia Herzi) anche qui tutto ruota intorno a una comunità francotunisina – e il culo di Céleste somiglia moltissimo a quello della Venere ottentotta. C’è un po’ di Kechiche anche in Tony, come lui il regista si appiccica ai corpi in questa madeleine di un’estate del 1994, i veli non esistono ancora nella comunità maghrebina, e la guerra del Golfo è un lontano accenno, la Charles de Gaulle su cui è arruolato il fidanzato di Ophélie, e lo stupore che vada a bombardare «laggiù». «In quegli anni si respirava una leggerezza maggiore, siamo alla fine di un secolo e questo ci aiuta a capire meglio l’inizio del millennio successivo» ha detto Kechiche.
Ma tutto questo appare più come una «tela di fondo», è la danza dei personaggi che interessa il regista, che come sempre il regista «inchioda» con un fastidioso giudizio, donne e uomini, tutti avvolti da una malinconia, da una tristezza che li fa danzare, con quelle loro notti, come sull’orlo di un precipizio. La libertà che viene sempre invocata assume un contorno strano, quello di un moralismo fastidioso che si posa sui corpi, di una sensualità raffreddata: la macchina da presa non li accarezza, prende le distanze, posandosi sui culi frementi li anestetizza fino a renderli un vezzo di forma.
Alle compagne di nottate, Amin dopo avere colto finalmente il suo attimo epifanico (l’illuminazione) nella sacralità del parto di una pecora, preferirà i sapori semplici della ragazza cortese che è uscita dal gruppo, seria e solitaria. Le donne (e non solo) della fantasia fanno sempre troppa paura, meglio un sano piatto di pasta sinonimo di quei valori che contano.
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