Il destino del cavaliere
Berlinale Terence Malick in concorso con il nuovo film «Knight of Cups» con Christian Bale nel ruolo di una inquieta movie star che vaga tra le sue infinite esistenze
Berlinale Terence Malick in concorso con il nuovo film «Knight of Cups» con Christian Bale nel ruolo di una inquieta movie star che vaga tra le sue infinite esistenze
Cielo grigio su Berlino, il cielo che era di Wim Wenders celebrato con l’Orso d’oro alla carriera, e ieri con la proiezione fuori concorso di Every Thing Will Be Fine, ma il Wenders della (nostra) adolescenza si è eclissato da tempo, e oggi i suoi angeli e le Alice perdute in città forse è meglio lasciarle lì nella memoria affettuosa senza riaprire i vecchi dvd …Davanti al Palast della Berlinale lo schermo rimanda in flusso continuo le immagini di questi giorni, i trailer dei film, le conferenze stampa, James Franco sorride a loup divo amatissimo, protagonista del nuovo cinema tedesco del passato (Herzog, Wenders) l’unica concorrenza seria gli arriva dall’ex-vampiro Robert Pattinson, come lui star d’autore.
Cinema dentro e fuori. Lo abbiamo lasciato indietro Terrence Malick eppure il suo Knight of Cups era il Film del festival e la macchina festivaliera si è trovata in seria difficoltà’ per contenere la folla, nessuno disposto a rinunciare all’evento, anche quelli che lo detestano e che come ha fatto qualcuno alla fine della proiezione hanno gridato: «Awful» Vergognoso.
Che dire? Complice il «salto» settimanale del lunedì ho preso tempo, ma oggi torna con prepotenza davanti alle immagini di un altro dei film in gara Under Electric Clouds, coproduzione Russia/Ucraina quasi sfacciata in uno dei giorni più violenti della guerra.Lo firma Alexey German jr ulteriore titolo di un concorso ingessato e pomposo, che non è una novità ma ogni anno stupisce (domanda: perché prendere un film come il Diario di una cameriera di Jacquot tanto per fare un esempio). German jr. non ha la magniloquenza del padre, – del resto deve essere stato difficile segnare una propria dimensione con tale eredità – anche se è lui a avere terminato alla sua morte È dura essere un dio, esperienza visiva e mentale da stordimento eppure mai autoritaria perché immersa nella ribellione. In un gesto sovversivo persino «banale» o quasi infantile, cacca, piscia, sudore, sperma che però sgretolava le regole sociali e le buone maniere del potere. Ecco, paragonare è ingiusto le «nubi elettriche» di un vicinissimo 2017, quel futuro arrivato per deluderci, sono però ghiacciate e compatte nel paesaggio bianco.
Sono lì a dirci di un mondo che come recita una voce nelle prime inquadrature, la globalizzazione non ha unito producendo al contrario crisi e nuove guerre. Siamo in Russia, nella sua Storia e nel suo presente, l’anima antisemita e razzista, gli anni Novanta gobarcioviani che tornano nei sogni di un giovane uomo allora ragazzo. Tra gli scheletri delle statue di Lenin resti di vecchi set prova a resistere una ragazza col naso che sanguina, come quasi a tutti gli altri, alla violenza del capitale, di un potere senza volto ma il suo è un mondo sottosopra. La crisi e la sopraffazione della Russia putiniana ma tutto è fin troppo esplicito nella ricerca di questa metafora coi contorni troppo netti.
Nella sua installazione Taut, presentata per il Forum Expanded, Michael Snow ricopre una lavagna e dei banchi di scuola (si vede fino al 16 all’Akademie der Kunste) di carta bianca e su uno schermo fa scivolare, letteralmente, delle fotografie che piano piano ricoprono il bianco dei banchi: sono volti di africani con i loro costumi tradizionali, scene di vita a Berlino est e ovest, quando c’era ancora il muro, una lezione in classe, lavagna nera su lavagna bianca, le strade affollate della Ku’damm. Sono tracce di memoria, liquida e espansa, e insieme questa «decontestualizzazione» produce spaesamento, le foto rimandano solo a sè stesse, non offrono spiegazioni, eppure ci parlano, o almeno ci intrigano.
Knight of Cups (media stellette nemmeno tanto bassa), il cavaliere di coppe, carta dei tarocchi, di un destino sospeso e fluido, come l’acqua del mare che percorre il film di Malick. La storia è sempre la stessa, un uomo e una donna, una storia d’amore, di guerra, di tradimenti, di conquista, di seduzione. Il cuore di tutte le storie.
E il paesaggio d’America, col suo immaginario, Los Angeles, glu studios hollywwodiani fino a Las Vegas, mitologia di celluloide patinata e disperata. A differenza del precedente, To the Wonder, qui il punto di vista è tutto maschile, quello di Christian Bale, una «movie star» che vaga tra le sue infinite esistenze, i personaggi che interpreta, la sua facciata pubblica, i dolori privati. La voce off racconta una fiaba, il principe che parte per cercare una perla preziosa, e si perde, come Bale in una babilonia di feste, alcol, maschere e risate, la terra trema per il terremoto e l’uomo si risveglia solo. Chi è quella ragazzina con gli occhi troppo grandi, che sull’automobile scoperta gioca col vento? Le donne si susseguono, Cate Blanchett, Natalie Portman, e poi la spirale di party, di voci, di risate, di musica, di piscine. Tutto patinato come le pubblicità, Banderas sorride e sembra uscito dal Mulino bianco, la ragazza è bellissima e il vento agita il vestito agli ordini del fotografo.
Malick, sempre invisibile, oggi 71 enne, possiamo chiamarlo pazzo, genio, visionario, impostore, eppure i suoi film segnano sempre una distanza rispetto a tutto il resto, potenti nel linguaggio visuale o forse per quel loro essere tutto e il loro contrario. Non è questione di «storia», la vertigine è altrove perché le storie che sono infinite e sempre le stesse sono anche racchiuse in un gesto, pura perfomance del corpo. Dalle piscine si finisce negli slum, poveri e spiagge popolari, african american distrutti in quel corpo narrante, e la luce (o il buio) del prete e dei veggenti, dei santoni e del new age.
Il cinema dunque, che è quel paesaggio che Malick attraversa e se lo lascia alle spalle, la società dello spettacolo e le infinite variazioni delle immagini che si susseguono fino allo stordimento. Però; Knight of Cup non è The Canyon di Schrader e neppure la Mappa delle stelle croneberghiana anche se respira quella stessa tensione, quello stesso modo di interrogarsi sul cinema e sulla sostanza delle immagini in modo totale, dentro al sistema di cui fanno parte, Hollywood e i suoi riti, la geografia dell’immaginario e le sue declinazioni. Attraverso diversi capitoli, L’uomo, la Luna ecc, Bale attraversa i frammenti di una realtà in un con un «Addio al linguaggio» (ed è vicino a Godard questo Malick) inafferrabile, e al tempo stesso fin troppo evidente, dove si consuma la narrazione di quelle infinite storie possibili offerte alla scelta del loro demiurgo. Slabbrate e tesissime, come la vita e come un destino che le carte non bastano a rivelare, dopo però non può esserci più altro. Uomo donna, padre figlio, figlio/figlio fuori e dentro il bordo dell’inquadratura i ‘ruoli’ di Bale si scambiano, o forse rimangono gli stessi, cosi come le sue partner che corrono leggere in riva all’Oceano, nel flusso delle onde, continuo come le immagini che non riescono a fermarle. Rimane soltanto la loro possibile verità e la favola della loro intenzione: c’era una volta.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento