L’esposizione «Le Studio d’Orpée» foto di Agostino Osio

Scrivere di Jean-Luc Godard ora che non è più, è scrivere dell’intellegibile, del mesmerico e del sublime. Dunque parole probabilmente inutili a ricordarne il mordace e rivoluzionario spirito che ha plasmato e perturbato moltissimi di noi. «La cultura è la regola, l’arte la sua eccezione» soleva dire all’epoca, il giovane favoloso, uomo di immagine filmica, immagine pittorica, immagine sonora, immagine-testo, immagine-sogno, immagine che sgombra le discipline e le fonde in un pensiero di senso, intenso e immaginifico come quello di un altro grande Jean Luc, il filosofo Nancy. Entrambi pensatori sghembi e impenitenti.

Il suo désordre era un altro ordine di cose che prevedeva una immagine agglutinante pittorica-filmica-installativa che fuoriusciva, penetrava e assoggettava gli umori, le certezze e le resistenze.

UNA IMMAGINE errabonda, migrante e nomadica attraverso cui azzardare per trasgredire, sperimentare per osare, sovvertire per disturbare.

Scavalcare la tradizione, dissentire e inventare un altro essere al mondo, un porsi contro sensato.

Fin dal magnifico Le mépris (1963) si intuiva lo sconfinamento nell’arte, plasmandolo come una metafora sia dell’irradiazione pop di quegli anni, sia del neoplasticismo di Piet Mondrian e che Godard racchiudeva in un bilanciamento astratto di colori primari che nel film sfavillano, pungenti e rabdomantici, senza il compiacimento della citazione.

Dunque definendo una corrispondenza pittorica che diveniva sequenza/fotografia/luce/taglio e dunque immagine dialettica nonché inconscio culturale. Recentemente nel 2020, la Fondazione Prada di Milano gli aveva dedicato la mostra Le Studio d’Orphée che aveva il senso di un omaggio alla sua maestria.

L’esibizione ordiva le sue tracce, le disseminazioni, le deviazioni e le memorie maldestre, installando in piccole sale della galleria Sud, una sorta di atelier, di uno studio di registrazione e di montaggio, (il suo luogo esperienziale) che fondeva arte e vita. D’accordo con il regista veniva trasferito a Milano il materiale tecnico, utilizzato nella realizzazione dei suoi ultimi film a partire dal 2010, con i suoi mobili, i libri, i quadri e oggetti personali, tutti trasportati dal suo studio-casa di Rolle (Svizzera). Il titolo della mostra-manifesto, citando espressamente il mito di Orfeo e di Euridice stabiliva un parallelo tra il regista e il poeta-musicista greco.

ATTRAVERSANDO le sale, pensate e soppesate da Godard, ci si imbatteva nel suo désordre iconico, dove accanto ai suoi oggetti che testimoniavano la dilatazione del suo infinito e bislacco régard, si insinuava l’atto di costruzione del proprio spazio di lavoro, quindi della costruzione dell’opera come una sorta di Livre d’image. Titolo peraltro del film che nel 2018 gli valse una Palma d’Oro speciale a Cannes.

QUI, con uno stacco o con un volo infinito, Godard transvolava sul potere dell’immagine, nel tentativo di indagare l’immaginario collettivo attraverso la reiterazione mnemonica di frasi, disegni, dipinti, foto. Hitchcock e Rossellini, noir e genere western si ibridavano a schegge di clip di Youtube nella ricostituzione di una immagine contemporanea, la sua, pulsante e complessa che contiene al contempo musica, fisicità, umore, parola, voce, silenzio, opera d’arte e mistero. Ed è questa immagine, insitamente pittorica, che si rintracciava già da Histoire(s) du cinéma, (1988 -1998) che era carpita da film, telegiornali, testi filosofici, romanzi, poesie, musiche e da opere d’arte e che tentava di detournare fino a farla divenire immagine sovversiva.