Il demiurgo che genera l’immagine
Intervista Al festival «Foto /Industria» di Bologna, la mostra Macchina & Energia dedicata a Thomas Ruff. «In un certo senso, ogni fotografia afferma qualcosa che, però, deve essere provata»
Intervista Al festival «Foto /Industria» di Bologna, la mostra Macchina & Energia dedicata a Thomas Ruff. «In un certo senso, ogni fotografia afferma qualcosa che, però, deve essere provata»
Centrale è il racconto di Thomas Ruff (Zell am Hamersbach, Germania, 1958, vive e lavora a Düsseldorf) dal titolo Macchina & Energia (a cura di Urs Stahel) e non solo per la sua collocazione nella Photogallery dell’edificio realizzato a Bologna nel 2013 per la Fondazione Mast – Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia (impreziosito dalla recentissima acquisizione di Reach, la scultura d’acciaio specchiante di Anish Kapoor), tra gli appuntamenti imperdibili di Foto/Industria (fino al 19 novembre).
Anche questa terza edizione della prima Biennale al mondo dedicata alla fotografia dell’industria e del lavoro (l’ingresso è totalmente gratuito) conferma, attraverso l’intuito di Isabella Seràgnoli e le scelte del direttore artistico François Hébel (a Stahel la cura delle mostre di Ruff e Valsecchi), la sua vocazione internazionale con uno sguardo su quanto di meno prevedibile possa offrire una tematica dall’approccio non sempre facile, interpretata dagli scatti di Alexander Rodchenko, Josef Koudelka, Lee Friedlander, Mitch Epstein (dalla collezione Walther), Mathieu Bernard-Reymond, Vincent Fournier, Joan Fontcuberta, Mårten Lange, Yukichi Watabe, John Meyers, Michele Borzoni, Carlo Valsecchi e Mimmo Jodice.
Thomas Ruff, che è stato allievo di Bernd e Hilla Becher alla Kunstakademie di Düsseldorf (1977-85) è «un artista ricercatore, demiurgo dell’immagine, che non concepisce l’apparecchio fotografico solo come strumento ottico-meccanico di registrazione, bensì come una potente macchina generatrice di immagini, come un dispositivo complesso con cui trasformare gli elementi della realtà data in un nuovo materiale visivo, a seconda delle necessità, dei criteri, delle modalità di registrazione prescelte», come scrive Urs Stahel nel catalogo della mostra.
Nell’investigazione dei sistemi della fotografia, anche in rapporto alla realtà virtuale, come si colloca il suo ruolo di collezionista e archivista?
Alcune volte scatto le foto da me, altre ho bisogno del supporto di specialisti. Può anche capitare che per realizzare il lavoro che ho in mente non esista la tecnologia, perciò certe volte faccio ricorso alle foto d’archivio. Per poterci lavorare devo creare il mio archivio personale che, forse, è più una collezione di curiosità, cose strane, fotografie mai viste prima che m’ispirano e che posso sviluppare in diverse direzioni. Penso, comunque, che per gli artisti l’archivio più comune siano i giornali. Tutti gli artisti ritagliano foto dai giornali e le appendono al muro, dipingendoci sopra o rifotografandole per creare nuovi lavori.
La serie Zeitungsfotos (Newspaper Photographs) nasce proprio da alcuni ritagli di giornali…
Quei ritagli sono presi da quotidiani che ho raccolto per dieci anni. Ho tagliato le foto isolandole rispetto al testo che, in un certo senso, erano immagini «perdute», perché private delle informazioni aggiuntive che le riguardavano. Io stesso non sempre ricordavo il contesto da cui provenivano.
Campi magneti e pianeti, soggetti presenti nei suoi lavori, denotano un dichiarato interesse per la ricerca scientifica, in particolare per l’astronomia chelei avrebbe voluto studiare all’università. Cosa la portò, invece, a scegliere la fotografia?
Quando avevo 19 anni avevo due interessi, uno era l’astronomia e l’altro la fotografia. Dopo il diploma dovevo decidere che strada prendere, ma dopo tredici anni di studio mi sono detto che seguire gli studi scientifici sarebbe stata pesante. Così ho scelto la strada più facile (ride) e mi sono iscritto all’accademia di arte. Uno studente di arte può dormire fino alle 11 del mattino! (ride, ndr).
Le «esperienze sequenziali» sono alla base della sistematizzazione dello sguardo oggettivo dei Becher, in cui sembra riflettersi la sua propensione alla catalogazione nell’indagare i diversi generi della fotografia. È effettivamente parte della loro eredità?
In un certo senso, ogni fotografia afferma qualcosa che, però, deve essere provata. Per farlo non basta una sola fotografia. È come per una ricerca scientifica, quando per provare se una tesi è giusta si deve ripetere più volte lo stesso esperimento. Se si fa un ritratto per spiegare cosa sia l’umanità, si dovrà fare almeno un ritratto di un uomo e uno di una donna. Probabilmente ciò non riuscirà a spiegare il concetto, ma dovranno essere fatti centinaia di ritratti anzi migliaia.
Quando Bernd Becher le chiese di fotografare una sedia, quali furono le difficoltà nell’esercizio di tenere a bada le emozioni?
Quando entrai nella classe di Becher ero veramente frustrato perché avevo realizzato che tutto quello che avevo fatto prima era kitsch. Le mie fotografie non erano realmente mie, piuttosto erano le imitazioni di foto che avevo visto nelle riviste e nelle pubblicazioni. Mi trovavo a dover ricominciare tutto dall’inizio, così chiesi consiglio a Bernd. Lui mi disse: «Thomas prendi una sedia e fotografala!».
Lo feci, riprendendo la sedia di fronte, di tre quarti e di profilo. Dopo averlo fatto, mi resi conto di quanto quelle immagini fossero noiose. Certo, anche dal punto di vista tecnico erano nello stile dei Becher, ma risultavano completamente svuotate di senso. Così cominciai a fotografare sedie nel mio appartamento da studente a Düsseldorf e quello fu anche l’inizio della serie Interiors che ho portato avanti per oltre quattro anni, tra il 1979 e il 1983. Una serie in cui lo stile è veramente oggettivo, nel senso che credevo che la fotografia catturasse oggettivamente la realtà. Non toccavo nulla negli appartamenti in cui fotografavo. Mi limitavo a scegliere l’angolo da cui scattare e non utilizzavo luci artificiali, solo quella che entrava dalla finestra.
«Photograms» ci riporta a un momento della fotografia in cui l’oggetto, o meglio la sua ombra, definisce l’immagine senza l’uso dell’apparecchio fotografico – in altre occasioni definito «la matita della natura». Qual è il rapporto tra tecnologia e camera oscura?
Quando ho avuto l’idea di creare la serie Photograms ho pensato al lavoro di László Moholy-Nagy, Man Ray ed altri famosi fotografi degli anni Venti. Ma c’erano tre cose che non mi piacevano del processo analogico. La prima è la dimensione della carta sensibile su cui si dispongono gli oggetti. Poi, c’è il controllo sulla carta, perché una volta che una volta che questi vengono disposti, esposti alla luce e poi tolti per sviluppare la carta, qualora si volesse spostare un bicchiere o una matita non sarebbe possibile. Quindi, anche la ricostruzione della composizione è molto difficile.
La terza cosa che non mi piace è l’assenza del colore. Per questo ho sviluppato l’idea di creare i miei Photograms in una camera oscura virtuale, un luogo in cui è molto più confortevole lavorare. Lì non c’è il limite della dimensione della carta, tutti gli oggetti sono virtuali (bicchieri, matite, lenti, spirali) e possono essere disposti liberamente. Anche la luce si può mescolare. A me piace mixare la gialla con quella verde e blu. Nella realtà virtuale la carta non si deve sviluppare, il processo matematico si chiama rendering. Anche gli oggetti si possono muovere liberamente, perché nella realtà virtuale non c’è il problema della gravità. Posso far fluttuare una penna sopra un foglio senza alcuna astuzia!
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