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Il delitto rimosso di Catanzaro

Il delitto rimosso di CatanzaroUn giornale d’epoca

La storia 50 anni fa nel capoluogo calabrese l’operaio socialista Pino Malacaria venne ucciso da una bomba lanciata contro una manifestazione antifascista. Erano i tempi del «boia chi molla»

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 4 febbraio 2021

Senza memoria non c’è futuro. In un paese che non ha mai fatto davvero i conti con la propria storia troppi sono i nomi dimenticati e lasciati nell’oblio. L’elenco di cuori rossi morti due volte, sotto i colpi di fascisti e polizia e senza che i carnefici mai abbiano avuto un nome, un volto e una pena, è lungo e doloroso. Da Alceste Campanile a Carlo Giuliani passando per Fausto Tinelli, «Iaio» Iannucci e Valerio Verbano. Ma prima di loro, Pino Malacaria.

CINQUANT’ANNI SON PASSATI da quel 4 febbraio del 1971 quando l’operaio socialista venne colpito a morte da una bomba lanciata contro una manifestazione antifascista a Catanzaro. Verità e giustizia non ve ne furono. Non si sa nulla, sui mandanti, sugli esecutori, sui depistaggi, sulle collusioni tra ambienti neri e ‘ndrine. Un unico comune denominatore: la volontà di insabbiare in fretta quella giornata. Oggi la città assiste impassibile all’anniversario. Nessuna cerimonia ufficiale.

La cappa dell’oblio e della vergogna ammanta i colli su cui si erge Catanzaro. Gli amministratori del capoluogo non hanno mai fatto nulla per serbare memoria di quanto accaduto. E così il nome di Malacaria è scivolato indifferente negli anni. È rimasto imprigionato nel vicolo dietro al Duomo dove l’operaio si accasciò esanime 50 anni fa. Eppure, Malacaria è caduto mentre difendeva la democrazia e la libertà, mentre manifestava per i diritti di Catanzaro. E contro le bombe fasciste che seminavano paura e distruzione anche all’estremo sud.

LA DINAMICA RICORDA QUELLA della strage di piazza della Loggia a Brescia. Gli slogan, le grida, il vociare indefinito e continuo che accompagna ogni manifestazione, furono interrotti da un primo fragore, improvviso, che frantumò la vetrina dell’orologeria al numero quattordici del vicoletto Vinci. La gente, in preda al panico, iniziò a correre. Mentre altre due deflagrazioni accrebbero la paura e la calca. Un uomo, colpito, intanto si trascinava nei pressi del Duomo. Era Malacaria che cadde privo di sensi. Portato in ospedale presentava ferite profonde agli arti inferiori e superiori. In sala operatoria gli vennero asportati il pollice e l’indice della mano sinistra. Tutto vano. Morì di lì a poco per trauma cranico ed emorragico causato dallo spappolamento della coscia sinistra.

La manifestazione di piazza Grimaldi che chiamava a raccolta le forze democratiche contro i «boia chi molla» e le bombe fasciste dei giorni precedenti si era trasformata in tragedia. Un comizio che, peraltro, neanche iniziò. Fu subito rinviato per mancata autorizzazione. Ma il muovere dei passi verso corso Mazzini, dei compagni che defluivano, venne interrotto dal rumore di un altro microfono e dal riecheggiare di altre parole. Dalla sede del Msi iniziarono ad arrivare frammenti di discorsi e cori ritmati. Era un blaterare ostile e nervoso contro «i comunisti», che si alternava ad un fitto lancio di pietre dalle finestre di giovani camerati muniti di caschi e spranghe. Alcuni funzionari di polizia irruppero nella federazione missina. A quel punto le urla e il fragore della strada vennero interrotti da esplosioni di bombe. Il resto sono grida e fiumi di sangue a cui si aggiunse il suono delle sirene delle ambulanze.

QUEL MARTEDÌ POMERIGGIO insieme a Malacaria finirono in ospedale 25 manifestanti, le bombe a mano ritrovate per strada furono 4. All’attentato seguirono attività giudiziarie (indagini, arresti, perquisizioni), politiche (manifestazioni di piazza e scontri alla Camera dei deputati) e un altro ordigno. La sera del 4 febbraio a Montecitorio si registrarono tafferugli tra comunisti e missini. Il vicepresidente Zaccagnini sospese la seduta. Intervenne il presidente Pertini che in aula dichiarò: «Deploro i gravi incidenti avvenuti poco fa e credo di interpretare il pensiero di tutti i deputati condannando la brutale violenza consumata oggi a Catanzaro». Tuttavia l’iter processuale si è rivelato negli anni un buco nell’acqua. Il 3 aprile 1974 la giustizia ufficiale ha concluso il suo corso.

I quattro giovani missini di Strongoli, arrestati e processati, sono stati alla fine assolti. Ed oggi per di più non esiste fascicolo che immortali nero su bianco la ricostruzione dei giudici. Gli incartamenti sono andati stranamente perduti. Esiste solo l’annotazione di registro. Il faldone si è volatilizzato. Ma non la sete di verità e giustizia. A chiedere la riapertura del caso sono rimasti in pochi in città.

TRA DI LORO L’INDOMITO Mario Vallone, coordinatore regionale Anpi. «Fallito anche il tentativo dei legali di famiglia di avere almeno il riconoscimento di vittima del terrorismo, la vicenda si avvia ad essere dimenticata. Noi facciamo da anni tutto il possibile per tenere un faro acceso almeno sulla sua memoria nel giorno del 4 febbraio. Il clima di quegli anni – tra depistaggi e collusioni – non ha risparmiato anche questo attentato. Catanzaro vive sempre assolta dalle proprie responsabilità. L’interesse per Malacaria si è affievolito sino a quasi scomparire. È difficile trovare qualcuno tra le forze politiche che ancora ne parli». Ma Anpi e Libera ci provano ancora. Appuntamento in piazzetta della Libertà, il 4 febbraio alle 17, sotto la targa che ricorda quella giornata drammatica. Cinquant’anni dopo, per non dimenticare.

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