Il 10 giugno rappresenta una data cruciale per la storia d’Italia. Quel giorno, infatti, si consumano tanto l’inizio della definitiva ascesa dittatoriale del fascismo alla guida dello Stato, quanto l’avvio tragico della sua caduta. Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti viene rapito e ucciso da un commando della polizia politica fascista guidato da Amerigo Dumini. Il partito di Mussolini avanza senza ostacoli verso la conquista assoluta del potere (fino ad allora condiviso al governo insieme ai liberali, ai cattolici del Partito popolare e ai nazionalisti) che sarà avviata con il discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera, con la rivendicazione in prima persona «di tutte le violenze» e del clima «storico, politico e morale» presente in Italia, e poi dagli anni delle leggi totalitarie del ’25-’29.

IL 10 GIUGNO 1940 Mussolini annuncia dal balcone di Piazza Venezia che «la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna». La folla, in basso, esplode in un boato di entusiasmo. Sono passati sedici anni dal delitto Matteotti ed il capo del fascismo è nel frattempo diventato il duce acclamato dal popolo italiano, «l’uomo della provvidenza» per il Vaticano nonché «il più grande statista vivente» in grado di salvare l’Italia «dagli appetiti bestiali e dalla pressioni del bolscevismo», secondo un poco profetico Churchill degli anni 1927-1933 citato da Canfora nel suo Il fascismo non è mai morto.

Cartolina commemorativa di Giacomo Matteotti

L’esito di quegli eventi sarà davvero finale per Mussolini e giungerà fino al tetro crepuscolo saloino consumato al fianco dei nazisti insieme a uomini come Giorgio Almirante e Pino Rauti. Il primo, capo di gabinetto del ministro della cultura popolare Mezzasoma e già propagandista del razzismo di Stato dalle pagine de La difesa della razza. Il secondo, militare volontario dei reparti della Rsi. Nel dopoguerra daranno vita all’Msi (1946) e Ordine Nuovo (1946) rappresentando l’anima nera neo e post fascista della Repubblica.

Il centenario dell’assassinio di Matteotti cade quando da oltre un anno al governo del Paese sono ascesi gli eredi del Msi, ovvero del partito dei «fascisti in democrazia» (secondo la formula almirantiana del 1956) o meglio dei «fascisti contro la democrazia», secondo una meno edulcorata considerazione della loro storia ben rappresentata da espressioni come queste: «Siamo contrari alla democrazia in linea di principio, per questioni ideologiche, perché non crediamo all’uguaglianza degli uomini, non crediamo al suffragio universale» (Rauti, 1975) e ancora «Io sono stato fascista. Sono stato fino alla fine con Mussolini. E se le stesse circostanze potessero riprodursi, io farei certamente le stesse cose» (Almirante, 1987). Formule accompagnate da ritornelli riecheggianti nelle sezioni missine che recitavano «il 25 aprile è nata una puttana. Le hanno dato nome Repubblica italiana» oppure «Ankara, Atene, adesso Roma viene» nell’auspicio di un colpo di Stato nell’Italia delle stragi degli anni Settanta.

Sarà agli eredi di quella storia e di quel partito («Un partito della destra repubblicana, della destra democratica» affermò Giorgia Meloni nel dicembre 2022) che toccherà il compito di ricordare il senso del delitto Matteotti. Tuttavia, scavando sotto la superficie e oltrepassando il senso di straniamento che ciò può determinare, resta indispensabile comprendere le ragioni profonde che ieri, di fronte alla crisi dello Stato monarchico-liberale, portarono in Italia alla nascita del fascismo ed alla sua sperimentazione come regime reazionario di massa (dotato di un suo tragico consenso) ed oggi, di fronte alla crisi della democrazia ha portato l’estrema destra (primo caso di un grande Paese fondatore della Ue) alla guida delle istituzioni repubblicane sulla base di un nuovo consenso.

È IN QUEST’OTTICA che, sottraendosi ad una sterile discussione sulla presenza o meno di similitudini tra passato e presente o su parossistiche ipotesi di ritorno delle camicie nere, deve ricondursi lo sguardo sulla natura della nostra società (dal ruolo delle corporazioni e degli ordini professionali alla prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico fino alla continuità di un blocco storico della destra che non è mai venuto meno nei decenni della Repubblica) e su quella «autobiografia della nazione» che Piero Gobetti indicava come chiave interpretativa del suo tempo di fronte all’assassinio di Matteotti e poco prima del suo. Sono questi, nella loro forma sostanziale e non retorico-celebrativa, la cifra e lo spazio pubblico su cui misurarsi dentro una chiave nuova di quell’antifascismo così naturalmente estraneo a chi oggi la «nazione», che fu di Matteotti e Gobetti, vuole comandare.