Economia

Il Def è un’esplosione di (troppa) fiducia

Il Def è un’esplosione di (troppa) fiduciaIl ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e il premier Matteo Renzi

L'analisi La riuscita delle performance annunciate da Renzi è legata all’andamento del Pil, ma difficilmente quest’ultimo cambierà verso

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 11 aprile 2015

L’acronimo di Def è, lo ritraduciamo alla nostra maniera: documento di economia e fiducia. Le aspettative di crescita, l’efficacia dei provvedimenti adottati, insieme al quantitative easing della Banca centrale europea e al deprezzamento dell’euro e del prezzo del petrolio, sono l’alfa e l’omega dello slogan «aspettiamo con fiducia la crescita».

Se si aprissero nuovi spazi finanziari (minori tassi di interesse) sarebbe possibile prefigurare misure pro-cicliche. A quel punto la copertura della clausola di salvaguardia da 16 miliardi per il 2016, tagli di spesa pubblica e/o maggiori entrate fiscali, diventerà accettabile.

L’atteggiamento è tipico dei neo-liberisti: solo la riduzione delle tasse può far crescere l’economia, con un atto di fede spropositato nel mercato e nelle imprese. Se non dovesse realizzarsi la crescita, significherebbe che le tasse o il mercato del lavoro necessitano di una maggiore flessibilità.

Nel frattempo, dopo tre anni di recessione, forse il Pil nel 2015 crescerà dello 0,7% (1,4% nel 2016). In dettaglio: consumi privati +0,8% (1,2% nel 2016), investimenti +1,1% (2,7% nel 2016), esportazioni +0,5% (0,1% nel 2019). Il quantitative easing e il deprezzamento dell’euro e del petrolio sono considerati fondamentali, dimenticando che la riduzione del prezzo del petrolio potrebbe avere anche effetti negativi sulla domanda dei paesi che lo esportano, e sullo sviluppo delle tecnologie rinnovabili.

In particolare il governo dimentica che l’impatto di quantitative easing, euro e petrolio è trasversale. In questo contesto le riforme strutturali diventano salvifiche, con una crescita aggiuntiva di 7,6 punti percentuali nel medio periodo. In realtà l’occupazione non registra grandi scostamenti; solo i consumi e gli investimenti segnano un miglioramento, che mal si concilia con l’andamento della stessa occupazione: inverosimile la crescita dei consumi quando il tasso di occupazione rimane stabilmente al di sotto della media europea.

A favore della crescita troviamo le immancabili privatizzazioni per un importo di 1,7-8% punti di Pil. Ma il punto strategico sarà la riforma delle 8 mila public utility, che nelle intenzioni del governo dovrebbero diventare non più di mille. Così l’esecutivo nasconde la polvere sotto il tappeto. Giocando tra quadro tendenziale e programmatico, il governo recupera 6-7 miliardi da utilizzare per la crescita, ma la zavorra della spending review pesa come un macigno. Ritornano gli 80 euro, il cuneo fiscale e le misure in cantiere.

Indipendentemente dalla contabilità pubblica, rimane l’impatto nullo dei provvedimenti rispetto alla dinamica dei consumi, e la necessità di trasformare i tagli virtuali in tagli reali, a meno che non si voglia aumentare la pressione fiscale. Si tratta di aumenti di Iva e accise per un valore pari al taglio del cuneo fiscale. Per il momento il governo coprirà la clausola di salvaguardia di 16 miliardi per il 2016 con 10 miliardi da spending review, 4 miliardi da una minore spesa per interessi e 2 miliardi da maggiori entrate legate alla crescita del Pil.

Cosa dobbiamo aspettarci? Il Pil difficilmente cambierà verso. I segnali economici sono molto distanti dalla pubblicistica e dai proclami del governo. La crescita dello 0,7%, con l’auspicio di crescere all’1% nel 2015, con un rapporto debito-Pil al 124,6% nel 2018, è giustappunto un auspicio. La cornice del Def sembra meno dolorosa di quella che ci siamo abituati a leggere. È solo apparenza. Nel 2015-16 molti nodi verranno al pettine e non ci sarà nessun piano Juncker a salvarci.

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