Il custode dell’Idea nel mondo di Peter Pan
Alain Badiou «La vera vita» del filosofo per Ponte alle Grazie. Un irritante esercizio di dialettica autoconsolatoria
Alain Badiou «La vera vita» del filosofo per Ponte alle Grazie. Un irritante esercizio di dialettica autoconsolatoria
È un libro che va letto, ma un libro piuttosto irritante, questo La vera vita di Alain Badiou (Ponte alle Grazie, pp.110, euro 15). Come, del resto, lo sono tutti gli scritti che si rivolgono ai «giovani». Per metterli in guardia. Per indicare la via. Per consigliare e suggerire. Chiunque conservi una memoria precisa della propria giovinezza (ma è tra le imprese quasi irrealizzabili) dovrebbe correggere così l’incipit, citato fino alla nausea, di Aden Arabia : «avevo vent’anni e non avrei permesso a nessuno di pontificare sulla mia condizione». Ricorderebbe, chi mantenesse questa memoria, un’avversione incontenibile verso ogni classificazione della propria esperienza, verso ogni definizione della propria soggettività. Il desiderio, al contrario, di appropriarsi di pagine o di parole di cui non si è il destinatario previsto, e precisamente per questo.
ALAIN BADIOU, invece, assegna alla filosofia, e a sé medesimo in quanto filosofo, il compito di «corrompere la gioventù». In termini socratici (e poi platonici) naturalmente. Con l’intento di distogliere i giovani dalle promesse, queste si corruttrici, dell’ordine costituito, dalle lusinghe interessate e dalle false apparenze.
Ma forse converrebbe rovesciare la prospettiva. E se fossero, invece, i «giovani» a dover corrompere la filosofia: non in senso generazionale, beninteso, ma in quello di uno scarto, di uno strappo, «giovane» perché imprevisto e privo di tatto, perché suggerito da condizioni che prima non si davano, dalle linee ereditarie della tradizione filosofica. Ricordate: «finora i filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo». Che poi questa «trasformazione» continuasse a comportare un poderoso esercizio del pensiero non toglie nulla al potere di «corruzione» che questa affermazione esercita sullo statuto della filosofia. È la celebre conclusione delle undici Tesi su Feuerbach. Il loro autore ha 27 anni. Giacobini, Bolscevichi, giovani e giovanissimi sono stati i rivoluzionari. È cosa nota. Ma «quei» giovani, maturati rapidamente alla luce di un’Idea, di una proiezione sul futuro radicata nel presente, non esistono più. Anzi non possono più esistere.
Il liberismo trionfante, sostiene Alain Badiou, liberatosi infine dell’ «Idea» concorrente, lo impedisce. E riconduce la gioventù a quella alternativa secca, che la buona filosofia intendeva scardinare attraverso la ricerca della «vera vita», tra la passione autodistruttiva dell’immediato (fosse anche un’insurrezione o «nuove forme di vita collettiva splendide e brevi»), il piacere indifferibile, e, di contro, «la passione per la riuscita», per il successo. Il raggiungimento paziente e conformista di una solida posizione nelle forme e nei modi previsti dall’ordine costituito.
Questa tenaglia agirebbe, fra l’altro, su una umanità che il mercato mantiene, nel suo insieme, in una perenne condizione adolescenziale, tra ragazzi che non intendono crescere e adulti che rifiutano di riconoscersi in una anzianità ormai screditata e dunque differita con ogni mezzo. Eterni acquirenti di giocattoli sempre più costosi. Non vi sono passaggi, nel tempo piatto del capitale, né rotture, né alternative nel neutro fluire del consumo e della circolazione del denaro.
VI È UNO SCHEMA ben preciso che il filosofo ci invita a seguire nella genealogia di una soggettività contemporanea, affetta, a suo parere, da disorientamento e impotenza. In estrema sintesi, la modernità scardina l’ordine simbolico e gerarchico della tradizione, ma l’esito di questo strappo non è una diversa simbolizzazione ( pensiero produttivo di un nuovo senso della vita e dei rapporti sociali) di segno opposto al comando e alla sottomissione, ma «una violenta costrizione reale sotto il giogo dell’economia» , una riduzione alla «naturalità» ineffabile ed eternamente riproducentesi del mercato.
A questo punto due sono le strade. O l’adagiarsi nell’apologia dello stato di cose esistente, o il tentativo di muovere verso una nuova simbolizzazione, che, per Badiou, dovrebbe consistere in quella «simbolizzazione egualitaria» che a un certo punto della storia ha preso il nome di comunismo. La quale non sembra godere però di grande salute, al contrario di un antioccidentalismo (col capitale la mediazione resta pur sempre possibile) autoritario e oscurantista che propugna in varie parti del mondo il ritorno alle antiche gerarchie.
AI GIOVANI, il filosofo «corruttore» propone dunque di sottrarsi a questa desolante alternativa attraverso la ricerca di una diversa idea di vita, orientando in senso costruttivo la propria «erranza», il distacco dallo stato di cose esistente. È un messaggio sfocato, un rifiuto etico della rinuncia più che una prospettiva precisamente definibile.
Il problema è che la controrivoluzione liberista ha rotto il giocattolo della dialettica, qui rievocato nei termini freudiani del rapporto tra padre e figli. Per quanto riguarda il figlio Badiou indica i tre passaggi decisivi: «lo stadio immediato e violento dell’aggressività, lo stadio simbolico della sottomissione alla legge e lo stadio finale dell’amore condiviso». Fatto sta che il padre, contro il quale e con il quale questa dialettica dovrebbe potersi compiere, è ridotto a uno spettro sballottato dalla legge esterna e anonima del mercato. È l’adulto, semmai, a ricadere così in una infanzia inerte, soggettivamente debole, perché privata di un passaggio di iniziazione. E qui il filosofo si avventura in un apprezzamento nostalgico di quel rito iniziatico che fu la leva obbligatoria: il ragazzo diviene maschio e uomo, si piega alla legge del padre-ufficiale, ma poi, insieme, rendono omaggio alla bandiera, coltivano l’amor di patria e si espongono da eguali al rischio della morte.
Come si può facilmente constatare la dialettica si presta a celebrare qualunque porcheria.
Anche per le ragazze il rito iniziatico del matrimonio, che attraverso la mediazione di un uomo le rendeva donne e poi madri, vacilla. Bene. Ma anche qui alla dialettica della tradizione subentrerebbe lo spazio liscio e il tempo immodificabile del capitale. Contrariamente ai perenni adolescenti di sesso maschile, il mercato pretende donne premature. La ragazza scompare così in questa figura immediatamente integrabile, in «una maturità vana quanto ambiziosa». Serve allora, così il filosofo francese, una nuova simbolizzazione che non replichi in termini femminili la logica patriarcale dell’Uno, (la sostituzione di un potere maschile divenuto ormai inefficiente), ma istituisca una tensione, un «fra-Due», che reinventi una «nuova ragazza», con un «gesto filosofico» che includa la maternità, sottratta alla dimensione biologico-giuridica della tradizione, ma anche alla marginalizzazione funzionale imposta dal mercato.
IL FILOSOFO AMMETTE, qui, di essere alquanto oscuro, di procedere timidamente per auspici e sensazioni. Con fiducia. L’ «Idea» resta sfuggente e la dialettica si mostra esclusivamente nella sue forme più reazionarie e regressive. È questa una critica della contemporaneità che, alla fine, ne sancisce la staticità senza alternative, nell’attesa di restaurare, non si vede come, una nuova dialettica progressiva non troppo diversa dalla vecchia. Tutto questo impedisce di vedere quelle esperienze di riconoscimento reciproco, di negatività vissuta e rifiutata, di percezione delle potenzialità presenti nell’indigenza artificiale che ci viene imposta, attraverso le quali una soggettività critica si va formando. È, infatti, dentro l’ «inazione», dentro il «ribellismo senza esito», e perfino dentro l’adattamento opportunistico alla gerarchia dei poteri, più che in un nocciolo di qualità morale rimasto miracolosamente intatto, che una rottura intraprendente con l’ordine liberista, un distacco, un esodo, può prendere forma, prima ancora di qualunque rinnovata «grande narrazione». Senza riti di passaggio, senza iniziazioni e, alla fine, senza dialettica.
Il filosofo «corruttore» della gioventù rischia così di finire travolto da quei processi orizzontali attraverso i quali si produce, per vie tutt’altro che lineari, una collettività insofferente ma non sprovveduta, perché ha attraversato una ruvida realtà che conserva ormai ben pochi segreti. Una collettività sovversiva, ma tutt’altro che votata all’autodistruzione.
Il rinnovato ritorno
del movimento reale
Alain Badiou è un filosofo francese noto per le sue prese di posizione a favore dell’«Idea», cioè di un comunismo che può essere sconfitto politicamente, ma che risorge sempre dalle sue ceneri. Posizione spesso qualificata come «una teologia» tesa a salvaguardare il comunismo dalla sconfitta del socialismo reale nella sua versione cinese. Tra i suoi libri, va sicuramente ricordato «La Comune di Parigi» (Cronopio), «Il secolo» (Feltrinelli), «L’idea di comunismo» (DervieApprodi, con Slavoj Zizek), «la filosofia al presente» (con Slavoj Zizek, Il Melangolo), «Oltre l’uno e il molteplice» (ombre corte), «manifesto per una nuova filosofia» (Feltrinelli)
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