Alias Domenica

Il cuscinetto di Sereni

Vittorio Sereni a San Siro, courtesy Giovanna SereniVittorio Sereni a San Siro – courtesy Giovanna Sereni

Trasalimenti e flash sulle gradinate di San Siro Il poeta andava a vedere le partite casalinghe dell’Inter portandosi un cuscino di gommapiuma: ma rimaneva perlopiù in piedi, ansioso e muto. In Vittorio Sereni la passione per il calcio e per l’Inter erano un’allegoria, nel cimento della partita, della dialettica di vita e morte

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 25 agosto 2019

Racconta Giovanna, ultima di tre figlie femmine, che suo padre Vittorio Sereni andava regolarmente a San Siro per la partita casalinga dell’Inter accompagnato, nei suoi ultimi anni, da Giovanni Raboni (abitavano nello stesso stabile di via Paravia, a pochi passi dallo stadio) e talvolta anche da Maurizio Cucchi, terza corona poetica del tifo interista.

Aggiunge l’intestataria della poesia Giovanna e i Beatles (meraviglioso flash a recupero del tempo adolescente e già dissipato) che Sereni andava allo stadio, allora a gradinate di cemento nudo, con un piccolo cuscino che in realtà non usava quasi mai preferendo rimanere in piedi a braccia conserte, ansioso qual era, per seguire il gioco nel mutismo più totale. Il piccolo cuscino era dunque per lui un feticcio o forse un talismano: l’oggetto (ne esistevano a quel tempo in commercio coi colori delle squadre di calcio maggiori) consisteva in un pezzo di gommapiuma, 35×20 centimetri circa, foderato a strisce nerazzurre e ripiegato in due da un elastico che fungeva da cerniera.

Alla morte del poeta, nel febbraio del 1982, rammenta Giovanna che il cuscino fu dato in ricordo a Paolo, un suo ex fidanzato, cui il padre aveva voluto molto bene forse vedendo in lui il figlio maschio che non aveva mai avuto e che certo avrebbe amato portare con sé alla partita.

Ma l’immagine del cuscino rinvia in sequenza metonimica a due complementari allegorie che costellano tutta quanta la vicenda poetica di Sereni, l’una dello stadio vociante che simula l’ardore e la pienezza ancora ignara della vita, l’altra dello stadio deserto che annuncia viceversa l’oblio, l’insensatezza e la morte.

Vitalità allo stato puro

 

 

Il primo esempio risale alla raccolta d’esordio, Frontiera (1941), e in particolare al mottetto «Domenica sportiva» il cui primo abbozzo, ci informa puntualmente l’edizione critica delle Poesie a cura di Dante Isella («Meridiani» Mondadori, 1995), risale al giugno del 1935, quando Sereni si è da poco trasferito a Milano ed è allievo di Antonio Banfi all’università.

La datazione del testo, un titolo provvisorio, Inter-Juve, ripescato per una antologia sportiva edita da Scheiwiller nel 1960, e almeno un riscontro interno («le zebre venute di Piemonte») lasciano immaginare che il poeta abbia assistito a un Inter-Juventus, certo la partita disputatasi il 31 marzo precedente all’Arena di via Canonica (un rovente 0-0 con un espulso per parte), ma colpisce il distico in clausola che vale una repentina inversione: «Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella». Il che vuol dire che al triplice fischio dell’arbitro ogni percezione si disfa, ogni principio di realtà viene interdetto o recluso dentro un labirinto su cui cade incessante la pioggia, simbolo di una consunzione implacabile.

Del resto troppe volte Sereni è tornato anche in prosa sul fatto che la passione per il calcio e per l’Inter fossero sinonimi della vitalità allo stato puro e appunto una perfetta allegoria, nel cimento della partita, della dialettica di vita e morte.

Negli anni di guerra e di prigionia il calcio rappresenta quasi una liberatoria allucinazione che esplode durante una partita fra prigionieri (si veda il testo che comincia «Rinascono la valentia / e la grazia» in Diario d’Algeria, ’47) ma anche lì, nella scia di un’abile ala destra che si perde nel ricordo quale un fantasma dileguante, il finale della poesia ha un sapore di cenere: «E come sfuma / chimerica ormai la tua corsa / grandeggia in me / amaro nella scia».

[do action=”quote” autore=”Vittorio Sereni, 1964″]«La passione muore nelle ceneri di un tardo pomeriggio domenicale e da queste, di domenica in domenica, non si sa come, risorge. La tua squadra vince la Coppa dei Campioni e poi diventa campione del mondo. Che cosa c’è più di questo?»[/do]

Nel dopoguerra viceversa, fra precarie collaborazioni giornalistiche e molte pagine volatili, spiccano ben due contributi sul campione eponimo del calcio italiano e massima gloria interista, Giuseppe Meazza, scritti entrambi per la sua partita di addio.

Usciti pseudonimi nel ’47 per l’«Illustrazione Ticinese», il loro recente recupero si deve alla filologia di Alberto Brambilla (in Un eroe del nostro tempo: Vittorio Sereni e il mito di Meazza, «La parola del testo», 1-2, 2019) cui si deve anche per l’occasione l’avere individuato il referente di Piede freddo, un testo compreso nel volume complessivo La tentazione della prosa, Mondadori 1998, nella cura peraltro eccellente di Giulia Raboni che data l’inedito al tardo 1977, una prosa in cui c’è qualcuno che scrive in prima persona, forse un artista che si sente alla fine, e proietta sé medesimo nel destino di un vecchio e ormai acciaccato campione: solo chi conosce davvero la storia del calcio italiano sa che del cosiddetto «piede freddo», per problemi di circolazione, era proprio Giuseppe Meazza a soffrire negli ultimi anni di carriera.

Sereni traduce ancora l’immagine ambivalente del calcio e del suo tifo in una prosa contenuta nella seconda e postuma edizione de Gli immediati dintorni primi e secondi (Il Saggiatore 1983). Il testo, già uscito nella rivista aziendale di Pirelli, si intitola Il fantasma nerazzurro e in calce ha la data del 1964, appena posteriore al trionfo della Grande Inter di Helenio Herrera sull’Independiente di Buenos Aires, spareggio a Madrid e gol risolutivo di Mariolino Corso, un assolo in dribbling e stoccata di una classe sul serio poetica, all’ultimo minuto dei tempi supplementari.

Non potrebbe esserci, al riguardo, una più esplicita dichiarazione di poetica: «La passione muore nelle ceneri di un tardo pomeriggio domenicale e da queste, di domenica in domenica, non si sa come, risorge. La tua squadra vince la Coppa dei Campioni e poi diventa campione del mondo. Che cosa c’è più di questo? Placato l’antico fantasma nerazzurro, mettiamoci calmi anche noi a guardare le cose dall’alto mentre un ragazzo che somiglia a quello che noi eravamo si beve con gli occhi il suo Suarez o il suo Rivera né più né meno che noi il nostro Meazza trent’anni fa. Macché, tutto è già ricominciato, tutto è da rifare. E anche questo somiglia stranamente alla vita, al lavoro, all’arte stessa».

Allo stadio, Simoncelli e Benzoni

È questo il senso prolungato di trasalimento, dell’ansia mai smaltibile che poteva investire a momenti persino la postura fisica di Sereni. E infatti Stefano Simoncelli ricorda ancora oggi di averlo accompagnato una domenica dei tardi anni settanta a San Siro in compagnia di Ferruccio Benzoni (due poeti allora giovanissimi e a lui devotissimi, ma entrambi juventini), per uno squallido Inter-Fiorentina senza reti: il maestro stette fatalmente per due ore nel freddo, così silenzioso da sembrare altrove, pallido e all’impiedi, il cuscino nerazzurro abbandonato sul cemento. Quando Simoncelli e Benzoni lo accompagnano allo stadio, è probabile che Sereni abbia già scritto «Altro compleanno», un vertice del Novecento, la poesia che chiude il suo libro terminale, Stella variabile (1981), e che vale il testamento di qualcuno ormai persuaso – ha notato Pier Vincenzo Mengaldo – della sua condizione di «trapassante».

Il compleanno cui allude il titolo è lo stesso del poeta, 27 luglio, quando di regola non si gioca o non si giocava a calcio e gli stadi erano chiusi. Lì, nell’afa di piena estate, sotto la pergola di un bar vicino a casa, egli contempla la mole cupa dello stadio che ha un colore funebre e il profilo sinistro di un mausoleo («a specchio del tempo sperperato e pare / che proprio lì venga a morire un anno»).

Vi è spento ogni barlume di vita viva, l’eco della città risuona da un catino disertato, spettrale, intorno aleggia un silenzio strano e si prolunga sotto il sole a picco che l’ardesia propaga nel proprio riverbero, come se il poeta proclamasse impossibile ogni vita e però reclamasse virtualmente una qualche resurrezione, la stessa che viene invocata nella clausola: «passiamola questa soglia una volta di più / sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore / e un’ardesia propaghi il colore dell’estate».

Non è proprio un caso che l’unica immagine residua di Vittorio Sereni a San Siro sia una foto di lui che ci guarda da uno stadio totalmente vuoto.

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