«Il cervello è un susseguirsi di confini contenuti l’uno dentro l’altro, come una sorta di cipolla gerarchica. In ogni punto la cipolla, o un singolo strato, cerca di predire le informazioni recepite dallo strato più esterno. Ciò che non riesce a prevedere è l’errore che attraversa gli strati più profondi per rivedere le previsioni e renderle più accurate». Spiega così il neuroscienziato inglese Karl Friston la struttura dell’organo del pensiero, del sogno e del nostro essere nello spazio quando ci muoviamo nel mondo. Lo fa da uno dei trentadue schermi che infrangono il buio della sala centrale del secondo piano della Fondazione Prada a Venezia, in cui studiose e studiosi parlano come fosse la trasmissione di un dialogo a distanza (una sintesi di duecento ore di registrazione) interrogandosi sulle prismatiche varianti e le irriducibilità di quell’Human Brains che dà la cornice concettuale alla mostra It Begins with an Idea (visitabile fino al 27 novembre, a cura di Udo Kittelmann con Taryn Simon).

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LA RASSEGNA è una «tappa visiva» dell’ambizioso progetto di ricerca work in progress – tentacolare e a scatola cinese per gli infiniti rimandi – nato nel 2018 e sviluppatosi con un approccio multidisciplinare e la collaborazione di un nutrito comitato scientifico, presieduto dal neurologo Giancarlo Comi. Il risultato è un’esposizione quasi sacrale, fatta di silenzi e voci sorprendenti, che richiede una lettura approfondita (lo sguardo «sfoglia» oggetto per oggetto e ne ricostruisce la storia) e un cospicuo desiderio di conoscenza da parte del pubblico.

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APPENA SI ENTRA, si è catapultati fra i sedili di un’aula magna universitaria per porsi all’ascolto di celebri scienziati e assistere a una lezione sul cervello, con tanto di esercitazioni di anatomia sull’organo reale.
Poi, salendo le scale, il palazzo settecentesco a Ca’ Corner della Regina subisce una metamorfosi notturna: diventa onirico. Nella penombra, assume le sembianze di una casa labirintica della mente e di tutte le sue connessioni, ma anche dei ricordi, i sogni, la memoria, l’evanescenza di ciò che è soltanto biologico o modello neuronale per riconfigurarsi in modo più aperto come costellazione impervia di emozioni.

A IMPREZIOSIRE il percorso, creando un ulteriore gioco di specchi – scientifico, cronologico, magico, sentimentale – c’è la «corrispondenza amorosa» tra letteratura e reperto, ognuno dei quali è impaginato come fosse stato riposto in una camera delle meraviglie. Che sia la riproduzione di un codice miniato, un papiro, una scultura rituale, un dipinto o il modellino di un teatro anatomico, nella sua stanza segreta che lo rende protagonista assoluto c’è anche la voce dello scrittore o scrittrice cui è affidata la sua interpretazione attraverso un racconto libero, suggestivo.
L’itinerario misterico alza il sipario al primo piano con i cilindri di Gudea, coppia di cilindri in terracotta risalenti al 2125 a.C.: istoriati con iscrizioni cuneiformi in lingua sumera. Non è casuale la loro presenza in mostra: fra le annotazioni, risalta infatti la più antica testimonianza giunta fino a noi di un sogno, quello di un sovrano visitato da oscure visioni che chiede di decifrarne il significato prima di porre mano a qualsiasi cosa. Il presagio è benefico: può edificare un gigantesco tempio in onore del suo dio mesopotamico Ningirsu. Ad accompagnare quella storia millenaria ci sono le parole di Salman Rushdie che immagina una umanità brancolante, in preda a tumulti e in cerca di definizioni per quello stato di incoscienza (il sonno e il sogno) che richiama così tanto da vicino la nostra condizione mortale.
Il dissidio perenne che ha attraversato la biografia della disciplina neuroscientifica fin dagli albori è stato quello fra cuore e mente. Galeno di Pergamo, per esempio, dedicò gran parte dei suoi studi alle funzioni cerebrali, convinto della loro centralità nell’elaborazione di pensieri, sensazioni e movimenti, rifiutando le visioni cardiocentriche care invece ai filosofi stoici. Una dicotomia che ha segnato la medicina per secoli, soprattutto quella occidentale.

IN MOSTRA non poteva mancare il famoso Giuramento di Ippocrate, qui consegnato all’interno di un Codice bizantino con il testo scritto a forma di croce nel suo adattamento alla fede cristiana. E naturalmente, ha un posto privilegiato il trattato medievale di medicina «femminile» ad opera di Trotula de Ruggiero, nel cui compendio compare il cervello (la scrittrice che la «narra» è l’americana Katie Kitamura).
Volando fra le epoche e le civiltà in un tour planetario – c’è pure Shiva con le sue danze cosmiche – si arriva a quei papiri egizi di Ebers (dal nome del loro compratore, nel 1873, a Luxor, l’egittologo e romanziere tedesco Georg Ebers) che archiviavano formule magiche e rimedi popolari ai malanni insieme alla sapienza chirurgica.

LA RIPRODUZIONE in una tavola del Teatro della memoria dell’italiano Giulio Camillo (1480 ca. – 1544) cambia registro e radica la mostra veneziana nell’immaginario, qui restituito in gironi e quinte di legno che realizzano un complesso dispositivo mnemonico (autrice di affinità elettive, Maria Stepanova). Ecco allora anche i dipinti che documentano la bizzarra modalità con cui si pensava di estirpare la pazzia dagli individui che ne erano affetti: secondo un’antica tradizione, la colpa dei disordini comportamentali era insita nella «pietra della follia», finita chissà come nella testa del paziente. Il malcapitato, per essere liberato della sua «demenza», veniva così operato con una trapanazione che, ipoteticamente, rimuoveva il malefico sassolino. Fra i maestri che ripresero questa cruenta pratica immortalandola in un quadro c’è, ovviamente, Hieronymus Bosch.