Per gentile concessione dell’editore Carocci anticipiamo di seguito un brano dal volume di Alessandro Barile, «Rossana Rossanda e il Pci. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica 1956-1966» (pp. 265, euro 32), in libreria da domani. Nel libro, l’autore prende in esame il ruolo svolto da quella che sarà poi tra le fondatrici del manifesto, all’interno del Partito comunista italiano, dapprima alla guida della Casa della cultura di Milano e quindi a Roma, come responsabile della Sezione culturale del partito. Nel ricostruire le vicende e il dibattito intorno a vari temi e al significato stesso della cultura nell’ambiente comunista tra l’inizio degli anni Cinquanta e la fine del decennio successivo, emergono molti dei «focus» che giungeranno poi a piena maturazione in quello che è stato definito come «il lungo Sessantotto» della sinistra italiana.
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Attiva politicamente sin dalla Resistenza, Rossana Rossanda è dai primi anni Cinquanta dirigente politica della Federazione milanese del Partito comunista italiano. Nel 1946 si iscrive al Pci e nel 1947 ha il suo primo incarico ufficiale: costituire l’associazione per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica; sempre nel 1947 lascia il lavoro presso Hoepli per divenire funzionaria a tempo pieno del partito; dal 1951 è direttrice della Casa della cultura milanese, fondamentale strumento di promozione e confronto culturale nella più complessiva strategia comunista di alleanza con i settori propulsivi della giovane democrazia postbellica. Chiusosi velocemente, con l’avanzare della Guerra fredda, l’orizzonte del rapporto politico con la Dc (sul modello ciellenistico), il Pci elegge la cultura come ambito privilegiato entro cui provare a costruire e rafforzare sponde politiche e sociali, evitando al contempo l’isolamento, problema che costituiva, dalla Resistenza in poi, l’obiettivo strategico della direzione togliattiana: tessere alleanze sociali e predisporre convergenze «sistemiche» al fine di garantirsi dall’emarginazione politica.

UNA STRATEGIA che l’approfondirsi dello scontro politico interno, a partire dall’esclusione dei comunisti dai governi di unità nazionale nel 1947, contribuirà a rafforzare. In tal senso la Casa della cultura svolge negli anni Cinquanta una funzione considerevole nel promuovere il dialogo tra intellettuali di vario orientamento, purché (ovviamente) progressista. Luogo d’incontro tra le scienze sociali che favorisce lo sviluppo di quel dibattito tra marxismi «diversi» che trovava in Milano un contesto recettivo in più o meno aperta concorrenza col marxismo «romano», contraddistinto dall’esigenza di rafforzare il rapporto con la «tradizione culturale del Paese», quella almeno di taglio democratico-popolare. E in effetti, più che di «marxismo», bisognerebbe parlare di «comunismo» romano, trattando Marx alla pari di altri autori e personalità legate alla cultura democratica italiana. Non tanto un marxismo «in combinazione», quanto una sua declinazione particolare e originale all’interno del movimento comunista internazionale.

Bisogna anche aggiungere che le Case della cultura, pensate in una logica di ramificazione territoriale dell’alleanza antifascista, non riuscirono altrove a sviluppare una politica culturale «di fronte», chiudendo rapidamente la propria esperienza o, come a Roma, vincolandosi eccessivamente alla politica culturale del Pci. La direzione della Casa milanese da parte di Rossanda sin dagli esordi esprimeva una visione complessiva e «forte», nonostante la giovane età della protagonista (appena ventisettenne alla sua nomina): vi era già un embrione di politica culturale che la giovane dirigente porterà successivamente a Roma, se non alternativa sicuramente diversa dalle indicazioni della Commissione culturale centrale del partito (nonché da quelle della Commissione culturale della Federazione milanese). Una visione in primo luogo unitaria con gli altri soggetti che animavano la Casa (quindi coi socialisti, ma anche con quegli intellettuali svincolati da una militanza politica precisa, eppure sostenitori di un’azione culturale rinnovatrice e antifascista); in secondo luogo aperta alle conferme o alle smentite che la ricerca culturale, nel suo senso più vasto, apportava alla politica. Il «marxismo critico», fenomeno culturale tipico dell’Italia del nord, venato di illuminismo e razionalismo neokantiano, trovò in Rossanda una sponda determinante.

SI PUÒ LEGGERE, in uno scambio tra il giornalista socialista Sam Carcano e Rossana Rossanda del novembre 1951 riguardo alla Casa della cultura e alla direzione culturale comunista, questo passaggio che dà il tono dell’impostazione fatta propria anche da Rossanda: «Nessuno di questi intellettuali (marxisti) si disamorerebbe della causa se scoprisse, che so io, che fino a dodici anni fa in Russia non si producevano orologi da polso; ma è certo che essi si disamorerebbero della causa se, avendo le prove in mano che gli orologi da polso non c’erano, si sentissero rispondere dai soliti caporali che questa è una menzogna, una provocazione, ecc».
La giovane dirigente milanese non poteva che concordare, sebbene l’avvertenza di Carcano fosse riferita in primo luogo proprio ai comunisti milanesi, sovente invadenti nel consiglio direttivo della Casa. In terzo luogo, il precoce obiettivo di Rossanda, anche questo mantenuto nella successiva direzione culturale del partito, sarà quello di favorire l’organizzazione collettiva degli intellettuali, al tempo organici al partito (e alle sue logiche politiche), ma liberi nel loro specialismo, puntando, proprio in virtù di questo modello ideale, a limitare la settorializzazione senza soffocarla, collegando il momento professionale-scientifico alla politica e all’organizzazione di partito. Un tema, questo, che tornerà ossessivamente nell’azione e nelle polemiche di Rossanda a Roma.

IL RAPPORTO TRA PCI E CASA della cultura non fu però sempre pacifico, e anzi si inseriva in una più complessiva idea dei rapporti tra politica e cultura da parte del partito comunista che avrebbe in seguito ingenerato numerose controversie. Sin dal giugno del 1945 (ma annunciata già nell’aprile, nel pieno della Liberazione) la Direzione Alta Italia del Pci aveva dato mandato per la costituzione di un Fronte della cultura che organizzasse gli intellettuali progressisti (definizione invero molto ampia, riguardante non solo tutti coloro che si erano opposti in vario modo al fascismo, ma anche chi, un tempo legato al regime, aveva mostrato di «ravvedersi»). Poco più tardi, nel marzo del 1946, vedeva la luce la Casa della cultura, associazione vicina ma non sovrapposta al Fronte. In quel torno di tempo il campo della cultura assumeva anche per gli intellettuali non comunisti un tono in qualche modo inedito: dopo vent’anni di autarchia culturale, di chiusura alle influenze intellettuali europee e quindi di esasperato localismo presieduto da Benedetto Croce, la tutto sommato improvvisa circolazione di idee e di reciproche influenze favorita dalla Liberazione non poteva non generare entusiasmo anche in quella parte di ceto colto disimpegnato, o comunque distante dall’attivismo politico, sicuramente non marxista.

Di qui, in qualche modo, anche l’origine del nome stesso, Casa della cultura – espressione mutuata dall’Unione Sovietica e dal campo comunista –, che, come scriverà il celebre psicanalista Cesare Musatti (membro del direttivo della Casa), corrispondeva bene al «sapore rivoluzionario» che l’impresa culturale sembrava rivestire in quegli anni. A simboleggiare in qualche modo il radicale mutamento contribuì anche la posizione scelta per le sedi sia del Fronte che della Casa: nell’ex sede del Minculpop, il Fronte; a via Filodrammatici (prospiciente alla Scala), nell’ex «Club dei nobili», la Casa: una rottura addirittura fisica col «vecchio mondo» liberale-monarchico-fascista. E nonostante ciò, le intenzioni dei promotori della Casa, in primo luogo Antonio Banfi e Elio Vittorini (e, con loro, il direttore del nuovo Corriere della Sera Mario Borsa, e poi Alberto Mondadori, Ernesto Nathan Rogers, Giulio Einaudi), vennero subito a scontrarsi con l’idea di organizzazione culturale che aveva il Pci. Se, da un lato, il partito prevedeva un’organizzazione una struttura di tipo sindacale, ovvero organizzando gli intellettuali come categoria sottoposta alle linee direttive di un centro politico-sindacale esterno ad essi (il partito), dall’altro, gli animatori del progetto proponevano un’idea più aperta, anche se non disimpegnata, del rapporto tra intellettuali e politica.

Il confronto, vinto in prima battuta da Banfi e soci, portò al ridimensionamento dei rapporti tra partito e Casa, mantenendo solo Giancarlo Pajetta, a nome del partito, nel consiglio direttivo. Un confronto che in qualche modo riproduceva, nei temi e nelle incomprensioni, ciò che stava avvenendo nella coeva impresa del Politecnico di Vittorini. Non a caso, Casa della cultura e Politecnico erano parte di uno stesso progetto, animato dalle stesse persone motivate dalle stesse fondamentali idee: come ricordava sovente lo stesso Vittorini, la Casa della cultura era «il Politecnico parlato», e lo scambio tra articoli in rivista e iniziative culturali della Casa osmotico.

LA SOFFERENZA DEL PCI, pur riconoscendo la necessità delle alleanze culturali, era dunque chiara: il protagonismo intellettuale rischiava di tracimare dal partito, proponendosi come ente (anche solo ideale) autonomo e addirittura concorrente agli interessi del partito. Il rischio di farsi, cioè, o posizione politica a sé stante, o continua richiesta di verifica. Per di più, massimo dei problemi, «elitaria», distaccata dalle esigenze di contaminazione popolare che l’immediato dopoguerra aveva in qualche modo sancito. Distante dagli interessi e dalle attitudini dei protagonisti della Casa della cultura era infatti l’idea di una cultura «nazional-popolare», men che meno pedagogica, avvicinata forzatamente alla comprensibilità della popolazione lavoratrice. Ma quel che spiega le frizioni del biennio 1947-48 è soprattutto l’irrigidimento politico, organizzativo e ideologico dei partiti comunisti in seguito alla costituzione del Cominform. L’avvio della Guerra fredda imponeva una gestione decisamente meno «liberale» degli strumenti d’intervento anche in ambito culturale, e questo finiva per scontrarsi con la strategia delle alleanze.