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Il cuore anarchico del credito cooperativo

Il cuore anarchico del credito cooperativoPierre-Joseph Proudhon in un ritratto di Gustave Courbet – Musee de la Ville de Paris

Finanza Pierre-Joseph Proudhon, l’esperimento della «banque du peuple» e la prima teoria del credito mutualisico, un crowdfounding ante litteram

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 19 dicembre 2015

Nell’America profonda d’inizio Ottocento un musicista della Old Boston Brigade Band, Josiah Warren, fondò il Cincinnati Time Store. Era il 1827 e in questo magazzino Warren vendeva oggetti di qualsiasi sorta, apponendovi sopra un’etichetta con su scritto il numero di ore lavorative impiegate per produrli.

Secondo l’equazione «il costo di produzione è il limite del prezzo», chi desiderava acquistare un determinato oggetto sottoscriveva una nota emessa dallo stesso Warren e si indebitava in tempo di lavoro.

Naturalmente in caso di inadempimento poteva comunque saldare la nota con un tot di chili di mais. Questo fu uno dei primi, felici esperimenti a carattere locale di abolizione della moneta corrente. Di questi esempi la storia recente né è piena, e le banche di credito cooperativo che conosciamo oggi – sottoposte adesso ad una trazione verso istanze a carattere finanziario o speculativo – nascono proprio dallo sforzo intellettuale e dall’impegno civile di molti pensatori ottocenteschi di formazione anarchica.

Tra i primi teorici di un sistema di credito alternativo possiamo annoverare Pierre-Joseph Proudhon e la sua Banca del popolo. Un esperimento che ebbe vita breve (neanche 5 mesi), ma che ispirò gran parte delle successive sperimentazioni di gestione del credito.

L’enfant terrible del socialismo – mosso dalla volontà popolare di costituire una solidarietà indipendente dallo Stato, garante solo degli interessi del grande capitale – decise, nel 1849, di fondare un banco di credito che potesse invertire i rapporti di forza permettendo «al lavoro che ha sempre obbedito, di comandare; e al capitale, che ha sempre comandato, di obbedire».

Per ritrovare la giusta simmetria tra le due polarità, il primo elemento da abrogare fu la moneta e la successiva possibilità di prestarla ad interesse: questo l’epicentro, secondo l’anarchico di Besançon, della profonda subalternità tra chi la possiede e chi ne necessita per lavorare.

La moneta deve avere una funzione sociale, in quanto istituzione collettiva, momento della comunità alla pari del linguaggio. Perciò la sua unica garanzia, come fu il caso di Warren, deve essere il lavoro, mettendo in relazione reciproca i produttori e i consumatori, l’offerta e la domanda.

Il principio è lo stesso del crowdfounding, una forma di microfinanziamento dal basso. L’unica differenza è che invece di Internet, la piattaforma d’incontro di Proudhon è la Banca del popolo, un’associazione di lavoratori.

Qui l’imprenditore che cerca un finanziamento incontra direttamente la domanda (composta da altri associati/produttori di materie prime, strumenti, o servizi), che gli forniranno i mezzi di cui ha bisogno. A questi la Banca rilascerà delle “lettere di scambio”, un buono convertibile a vista dal banco con altre merci o servizi. È un sistema di “socialismo del credito” fondato sulla disponibilità dei produttori e dei consumatori di scambiare i propri beni e servizi senza desiderio di speculazione. I soci non hanno un ritorno economico sulla cessione temporanea, ma un prodotto, così il credito non è più un prestito ma uno scambio: «Fare credito, sotto il regno monarchico dell’oro, vuol dire prestare – fare credito, nel segno repubblicano del buon mercato, vuol dire scambiare».

Questo crowdfounding ante-litteram, permette di acquistare il bene prima che venga prodotto e garantisce l’autogestione dei produttori che non devono subordinarsi al capitale: «Il popolo deve diventare il suo banchiere e prestarsi i capitali di cui ha bisogno».

La pratica del credito gratuito – prima forma di mutualismo – sovverte il rapporto di subordinazione del lavoro al capitale. Mentre la banca classica crea ricchezza dai depositi di liquidità che non gli appartengono, attraverso il tasso di interesse, giustificato da sempre come «costo del tempo» (Turgot), «costo della pazienza» (Fisher) o «costo dell’attesa» (Marshall), i buoni di scambio sarebbero sempre direttamente proporzionali alla produzione e al lavoro, senza mai eccederli.

Malgrado il fallimento (la banca raggiunse il capitale di 18.000 franchi rispetto ai 50.000 richiesti dallo statuto giuridico) gli sforzi teorici di Proudhon hanno provocato un forte entusiasmo tra le associazioni dei lavoratori che perseguiranno il fine cooperativo. Il problema sostanziale di questo sistema risiede, come sostiene Haubtmann, nel fatto che è difficile generalizzare la lettera di scambio e renderla una pagamento effettivo senza una garanzia stabile. Rispetto al bon d’échange «la banca classica fornisce con una mercanzia direttamente scambiabile (il denaro) il prezzo di un buono di scambio realizzabile soltanto tra qualche mese».

Il problema, lo dice anche Gesell, erede intellettuale di Proudhon e teorico della moneta franca, è che «né la forza lavoro, né le merci possono conservarsi come la moneta. Ciò che offrono si degrada, necessita di spese di manutenzione; mentre chi possiede denaro può ritirarlo senza problemi dal circuito economico e attendere l’occasione favorevole. Il denaro non si degrada. È questo ciò che gli conferisce un carattere affascinante, diabolico. Diventa un feticcio, un oggetto che rappresenta il valore, fuori dal tempo, e che si può stoccare».

Ma le intuizioni di Proudhon influenzarono i successivi esperimenti mutualistici italiani, tra cui la Banca popolare di Lodi prima (1881) e di Milano poi (1881) nate ad opera di Luigi Luzzati che grazie alla creazione di un’associazione nazionale degli istituti e delle casse rurali incentivò l’unificazione italiana anche nel credito popolare. I principi consociativi e mutualistici che animano ancora oggi le Banche di credito cooperativo si rifanno proprio ai principi proudhoniani del voto capitario, di un limite di possesso e della mutualità rivolta ai soci.

In Italia, le banche popolari hanno promosso lo sviluppo del territorio e delle imprese locali, crescendo nelle comunità di riferimento – grazie ai rapporti duraturi con le famiglie del luogo, attraverso una sinergia di fattori relazionali – fino ad occupare una quota massima del 17% del mercato italiano.

Persino in periodo di crisi, e rispetto alle società bancarie per azioni, tra il 2011 e il 2013 le banche popolari sono state le uniche ad aumentare i prestiti tra le famiglie e le imprese con un incremento del 15%.

Ora, dopo il decreto sul governo societario varato dal Consiglio dei ministri nel gennaio scorso e che vede le 10 banche popolari con capitale sopra gli 8 miliardi convertirsi in Spa eliminando così il principio capitario, e con la recente conversione anche di quattro piccoli istituiti di credito cooperativo (Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara, CariChieti), questa eccezionalità italiana (eccezionalità sempre invocata come un totem per aumentare i consensi elettorali del governo) a livello strutturale viene liquidata per essere assorbita nella logica finanziaria, anche a costo di gravare sui piccoli risparmiatori.

«La somma della vostra miseria attuale – scriveva Pierre-Joseph Proudhon – è precisamente equivalente alla somma del benessere che vi prende il capitale». Questa frase, oggi, che descrive al meglio quanto avvenuto con il decreto “salva-banche”, è la spiegazione più lucida di una contraddizione che non riusciamo a risolvere. Proferita più di 150 anni fa, essa suona ancora come un monito, per noi abitanti di questa distopia asimoviana, costretti a ripetere, in eterno, lo stesso errore.

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