Il crepuscolo dei valori occidentali
Torri Gemelle Nel rancore e nell’incattivimento che si scaglia contro il «buonismo», in America e in tutte le nazioni occidentali in balia della marea populista, si ravvisa, introiettata, la violenza delle guerre civilizzatrici
Torri Gemelle Nel rancore e nell’incattivimento che si scaglia contro il «buonismo», in America e in tutte le nazioni occidentali in balia della marea populista, si ravvisa, introiettata, la violenza delle guerre civilizzatrici
Le immagini speculari dei corpi lanciatisi nel vuoto dall’alto delle torri gemelle incendiate e quelli che cadono dopo aver tentato la disperata fuga appesi ai carrelli degli ultimi aerei C130 a lasciare Kabul, aprono e chiudono simmetricamente il ventennio iniziato l’11 settembre del 2001.
Una simmetria che in questo anniversario potrebbe indurre a considerare, con le lacrime di Biden trasmesse a reti unificate, la parabola afghana chiusa e consegnata alla storia.
Il ventennio è invece plausibilmente solo un primo capitolo di un presente ancora tutto da scrivere e dalle molte domande ancora senza risposta. «Alla fine ha vinto bin Laden», ha scritto Michel Moore in un saggio diffuso questa settimana, «ma non avrebbe potuto farlo senza tutto il nostro aiuto».
Ed è difficile interpretare gli eventi in modo altro che una débacle occidentale. Le menzogne antesignane di Bush e Colin Powell hanno generato l’attuale marasma di fake news che nutrono i complottismi e le demagogie populiste che stanno destabilizzando le democrazie occidentali. Un filo diretto lega l’11 settembre al 6 gennaio 2021.
«Siamo diventati peggio di loro» afferma ripetutamente il documentario passato nell’anniversario sulla rete pubblica Pbs, annoverando disillusione e amarezza per la guerra futile fra i moventi dei molti reduci presenti nella folla che lo scorso gennaio ha assaltato il congresso nel tentativo di invalidare le elezioni e sovvertire il governo della «culla della democrazia occidentale».
Nel rancore e nell’incattivimento che si scaglia contro il «buonismo», in America e in tutte le nazioni occidentali in balia della marea populista, si ravvisa, introiettata, la violenza delle guerre civilizzatrici. Non è stato l’occidente a illuminare la barbarie con la sua democrazia. Invece il virus dell’extra legalità ha contagiato l’occidente dei «valori e dei diritti» corso ad abbracciare lo stato di sorveglianza del patriot act. I veleni di Guantanamo ed Abu Ghraib hanno corroso l’occidente; i compromessi fatali della guerra al terrorismo hanno pregiudicato infine ogni presunta autorità morale.
Incapaci di immaginare soluzioni alla globalizzazione messa in moto da colonialismo e capitale, le democrazie avanzate sono costellate di centri di detenzione e campi di sottolavoro. Una cintura di abbietti campi profughi appaltati a stati clienti circonda le cittadelle del benessere. Demagoghi opportunisti cavalcano la sindrome da accerchiamento per esacerbare il panico e il rancore.
Moore immagina un bin Laden che sorride dall’aldilà, constatando come il suo progetto abbia funzionato alla perfezione: «Noi, suoi nemici mortali, ci troviamo in scompiglio, in guerra con noi stessi». L’applicazione, decisa allora, del vecchio modello di guerra al nuovo mondo asimmetrico, si rifaceva ad un modello imperialista fuori tempo massimo ed esprimeva in senso più lato il disperato ritardo di una politica – e geopolitica – senza gli strumenti per decifrare un presente che sfugge sempre più alle vecchie classificazioni.
Il tentato golpe trumpista ha messo in chiaro che negli Stati uniti è in corso una sorta di guerra civile culturale. Il populismo arcigno di Trump ha eviscerato la destra conservatrice e trasformato il partito del capitale in un’organizzazione eversiva e antidemocratica, promotrice di istanze suprematiste, autoritarie e xenofobe. La principale minaccia terrorista oggi è interna e la campagna insurrezionalista strisciante promossa dal Gop ha prodotto un’instabilità sistemica che rischia nei prossimi mesi ed anni di destabilizzare forse irrimediabilmente l’esperimento americano. In questa America radicalizzata il partito di minoranza (i repubblicani si attestano realisticamente non oltre il 45% dei consensi popolari) progetta di riprendere il potere sopprimendo il voto di avversari e minoranza, utilizzando i meccanismi intermediati del federalismo e del collegio elettorale, oltre che la sistematica erosione di fatti e della realtà condivisa a mezzo complottismi e disinformazione via social.
Singoli stati ad amministrazione repubblicana conducono guerre autonome contro la «dittatura sanitaria», promuovono il porto d’armi, proibiscono, come il Texas, l’insegnamento di testi «anti americani» nelle scuole. Sempre il «Lone Star state» ha unilateralmente sospeso il diritto all’aborto. La corte suprema blindata da Donald Trump con nomine di integralisti cristiani avvalla la rivolta dei talebani a stelle e strisce. L’obbiettivo è di invalidare la democrazia multiculturale, imporre una anacronistica retromarcia, politica, sociale, eugenetica. Allo «scontro di civiltà» è subentrata la culture war permanente – un feroce scontro intestino sulla modernità.
In tutto questo il dato più innovativo, pur se non sufficiente, è tutto sommato la rinuncia alla guerra su cui insiste Biden. In Usa, come in Europa, la svolta a destra c’è stata con la mutazione del conservatorismo in nazional-populismo identitario e sovranista. È invece «a sinistra» che rimane da trovare una risposta adeguata alle questioni post-11/9 e post-secolo americano. Non si ravvisa ancora in questo senso un’evoluzione verso un progressismo che riesca a farsi carico in modo propositivo di globalizzazione dal basso, multiculturalismo, post-lavoro, disuguaglianze e clima in modo organico e politico.
Finché sarà così l’11 settembre rimarrà un capitolo aperto.
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