Davvero chiude Gibert Jeune al numero 5 di place St-Michel? Da Parigi in poche ore la notizia è rimbalzata sui media di tutto il mondo, dal cileno Infogate al turco Sözcü, e tuttavia si stenta a credere che a partire da marzo i tendoni gialli della libreria, da tempo immemorabile parte integrante di quell’angolo centralissimo della capitale francese, verranno ammainati per sempre.
Eppure di spazio per i dubbi sembra essercene poco, anche se Rodolphe Bazin de Caix, responsabile marketing della catena, spiega a Julia Webster Ayuso del Guardian che la chiusura di quel punto vendita non coincide con la morte della sigla ma con il tentativo di un rilancio necessario alla luce degli effetti della pandemia: «Il covid è arrivato, e improvvisamente non ci sono stati più turisti né studenti – e questa libreria, il cui dna era composto per l’80 % da libri di testo, molti dei quali di seconda mano, è stata colpita più di tante altre».
Attrezzarsi, dunque: «Quello che abbiamo imparato dal lockdown – dice Bazin de Caix – è che le persone non lasciano più il loro quartiere di residenza. Ci siamo resi conto che questo negozio, a lungo una meta per tanti, non serve più a questo scopo. Tocca a noi, allora, andare dove sono adesso i clienti», e cioè nei quartieri residenziali, lontano dal centro abbandonato dai turisti. E difatti pare che tra i piani della società ci sia l’apertura di quattro librerie più piccole in diverse zone di Parigi, oltre alla ristrutturazione del punto vendita nel decimo arrondissement. D’altra parte Webster Ayuso rileva che probabilmente la pandemia ha solo accelerato una trasformazione già in corso, e cita Laurence Albert che su Les Echos faceva notare nel marzo 2020 (e quindi in epoca pre-coronavirus) come negli ultimi 18 anni il numero delle librerie parigine sia diminuito del 27%.
In ognin caso la malinconia resta, anche perché la chiusura di Gibert Jeune su place St-Michel (una istituzione nel panorama parigino, come il sito Paris.fr titola un articolo dedicato alla storia delle catene gemelle Gibert Jeune e Gibert Joseph) si accompagna alla crisi di un altro spazio pochi passi dalla piazza, la celeberrima Shakespeare and Company fondata da Sylvia Beach nel 1919 e frequentata (tra gli altri) da TS Eliot, Joyce, Francis Scott Fitzgerald e Hemingway. Molto amata da fotografi e registi (Woody Allen e Richard Linklater, solo per citare due nomi) oltre che da folle di instagrammer, oggi la libreria fa i conti con perdite dell’80% rispetto agli anni scorsi e in ottobre ha lanciato un appello per la propria sopravvivenza.
Di fronte a questi casi (e altri se ne potrebbero citare) ci si chiede se abbiamo a che fare con un calo della lettura, come farebbe pensare l’irresistibile ascesa di Netflix nell’era del confinamento, o se invece anche in campo librario si stia imponendo una «economia della prossimità», che favorisce le vendite online, con Amazon asso pigliaquasitutto, e le piccole librerie di quartiere, in particolare quelle che si sono organizzate per andare incontro, anche fisicamente, alle esigenze dei loro clienti. Una ipotesi ottimista sostenuta, qui da noi, dai dati inaspettatamente positivi del rapporto Aie (Associazione Italiana Editori) alla fine del 2020.
Chi di certo crede nel futuro del libro e della lettura è lo scrittore Will Self , che su Literary Hub ha avviato una serie di articoli in cui si chiede e ci chiede «come e perché leggiamo». Titolo del primo: «Come dovremmo leggere. Elogio della promiscuità letteraria nell’epoca digitale», dove ovviamente l’accento è su quel verbo “dovere” così prescrittivo in una fase storica che con le prescrizioni ha un rapporto di odio-amore, a dir poco. Ci torneremo