Silvio Berlusconi, in vita, è stato molte cose. Soprattutto, colui che ci ha detto che le nostre speranze non avranno seguito. Posto che il suo funerale sia stato un evento mediatico degno di un egolatra, rimane ancora tutta da scrivere la sua biografia. Malgrado i molti tentativi, già realizzati, negli ultimi trent’anni. Altri se ne aggiungeranno, potendo celebrarlo come colui che ha dato corpo e sostanza ad una nuova destra, caratterizzata da un profondo spirito anti-costituzionale. Nonché intrinsecamente anti-antifascista. Non per questo, tuttavia, assimilabile al fascismo storico. Posto che certe facili equazioni, in politica, così come nei fatti, non reggono.

TRA LE MOLTE COSE SCRITTE, un testo è più che mai attuale, ossia quello di Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, 2014, pp. 251, euro 16). Il corpo mummificato, soprattutto se ancora vivente, del leader ha rappresentato il precipitato di una serie di questioni a tutt’oggi più che mai aperte: il legame tra sfera pubblica e dimensione privata nell’età neoliberale; le concezioni, al pari delle materiali declinazioni, della «libertà» nell’epoca della decadenza dei regimi a democrazia sociale e costituzionale; il rapporto tra mediatizzazione dell’agire di consumo e contrazione dello spazio pubblico; il corpo individuale come soggetto del godimento illimitato, basato tuttavia su meri rapporti di prevaricazione, potere e di proprietà; la dissoluzione della linea di divisione tra realtà e finzione, quindi tra vero e falso, tra autentico e illusorio. Laddove le prime cose non sono alternative alle seconde ma si ibridano in esse.
Berlusconi, figura intrinsecamente impolitica (tale poiché ha celebrato la fine dello spazio pubblico, così come invece lo intendevano i partiti e le organizzazioni di massa), ha introdotto in Italia quella che è la vera essenza del populismo, ossia il ricorso sistematico allo storytelling in quanto desiderio e speranza, qualcosa che sta tra il «raccontaci ancora quella storia» e il «facci sognare di nuovo».
Non a caso, uno degli elementi che maggiormente ricorrono nella sua storia personale è il rimando all’impegno imprenditoriale nel calcio, asse strategico della costruzione della sua medesima immagine pubblica insieme – si intende – all’impero mediatico che ha saputo edificare molto abilmente, quanto oscuramente, partendo dall’edilizia. Un elemento, quest’ultimo, che se rafforza l’indisponibilità dei suoi detrattori non di meno alimenta, ancora di più, il mito intorno a lui, corrispondente a quello di un re che ha costruito il suo regno dal «nulla», per sola abilità, furbizia e scaltrezza, doti che in fondo piacciono a non pochi. I quali le osservano soprattutto con malcelata invidia.

CI SI TROVA, in questo caso, dinanzi non tanto a una «ideologia» politica compiuta quanto al ritorno a una sorta di antropologia elementare, dove ciò che conta non è mai una qualche forma di pensiero complesso bensì l’annullamento di esso in un’idea di azione («esisto in quanto faccio») in sé tanto illusoria poiché completamente sganciata dalla realtà dei fatti. Come tale, in fondo risarcitoria, Berlusconi è stato soprattutto il campione italiano di tre elementi, strettamente concatenati tra di loro, poiché parte di una sorta di una «ideologia italiana».
Il primo di essi è l’anticomunismo in assenza di comunisti (ossia, il riferimento alla «sinistra», al pari di una feroce creatura mitologica), quindi l’avversione non tanto per un nemico politico e ideologico oramai inesistente, sostanzialmente inoffensivo, quanto per un peculiare lascito di quell’esperienza storica, che è quello della socialità politica, ossia dello stare insieme comunicando partecipazione non solo a riti e miti (che pure non difettavano di certo nel comunismo storico) ma anche, e soprattutto, alla speranza di un progetto di trasformazione possibile della società. Berlusconi interviene come imprenditore dell’immaginario quando quest’ultimo sogno utopico si sta già progressivamente dissolvendo, nel trapasso tra gli anni Settanta e Ottanta. Ad esso, nel vuoto che va creandosi, sostituisce la celebrazione dell’individualismo emotivo ma anche asociale, tale poiché incapace di andare oltre il proprio perimetro individuale e, proprio per questo, indirizzato a riconoscersi attraverso una subcultura dei consumi dove si è per ciò che si appare, quindi avendo esclusivamente oggetti (merci) di riferimento, da esibire.

COS’È LA TELEVISIONE commerciale, nella sua essenza, se non una continua esibizione del proprio privato? Il secondo fattore da considerare è il rimando a se stessi (così Guia Soncini, L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi, Marsilio, 2023), ossia il richiamo all’egocentrismo di massa (che è cosa diversa dai narcisismi individuali), di cui Berlusconi è stato il grande sacerdote in questi decenni. Più elementi si volgono in tale senso, a partire soprattutto dal maschilismo patriarcale con il quale ha sempre parlato delle «sue donne» (madre, mogli, fidanzate, amanti e intrattenitrici di vario genere e natura), combinando le differenti tessere del puzzle erotico-affettivo all’interno di un’intelaiatura dove la sua centralità di «maschio» doveva rimanere indiscussa.

A UNA TALE COSTRUZIONE mentale chiedeva, a tutti gli uomini italiani, in una sorta di appello costante, di aderire integralmente. Il vero fuoco di questa concezione fu, negli anni Ottanta, lo show televisivo Colpo grosso (1987-1992), di cui a suo tempo parlarono Corrado e Curzio Maltese insieme a Massimo Gramellini (Baldini & Castoldi, 1994), dove all’erotismo casereccio si intrecciava, ancora una volta, il discorso ossessivo sul corpo come merce. Il corpo della donna, oggetto di consumo, ma anche quello dell’uomo, soggetto consumatore. Il tutto in una cornice di assoluta plasticità, finzione e sciatteria, basata sulla dichiarata inconsistenza delle situazioni, delle relazioni, dell’oggetto stesso del «gioco».

DEVE FARE RIFLETTERE, in tutto ciò, come quanto fu celebrato, dal 1976 in poi, in quanto processo di «liberazione espressiva» (la sentenza della Corte costituzionale che autorizzava le trasmissioni televisive via etere in ambito locale, garantendo tuttavia allo Stato il monopolio restante su tutto il territorio nazionale), si sia invece trasformato in qualcosa di ben altro: non la possibilità di relazionarsi e coniugare se stessi al resto del mondo ma il paradossale effetto di monopolizzazione commerciale del bisogno di manifestarsi. Un terzo aspetto è l’amoralità familistica: Berlusconi, al pari di altre figure mediatizzate, oggi più che mai diffuse, ha sempre e solo venduto se stesso, la sua immagine e, con essa, l’idea che ciò che conta non sia la persona emancipata bensì colui che è parte di un costrutto più esteso, ancorché materialmente delimitato, ossia ciò che conosciamo e chiamiamo storicamente con il nome di «famiglia». La quale è tale non tanto (o solamente) per esperienza generativa, biologica e civile ma, prima di tutto, per legame di «sangue», laddove quest’ultimo implica un vincolo basato sull’interesse di parte. Poiché è questa la vera essenza del sovranismo.

IN QUESTO, Berlusconi ha compreso anzitempo che la trasformazione italiana avrebbe prodotto una scissione tra un segmento del ceto medio, destinato a beneficiarne, e la parte restante, invece, soggetta alla retrocessione sociale. Ha lavorato soprattutto su quest’ultima, quella più consistente, piegando il mutamento collettivo, che si sta ancora oggi consumando nei suoi effetti di lungo periodo, in una curva a proprio favore.
Il fondo, la sua matrice è quella non di un demiurgo, di un indovino e ancora meno di un vero imprenditore, bensì di un taumaturgo, che è tale poiché molti sono disposti a credere che la realtà dei fatti possa corrispondere al proprio onirismo magico e infantile. Così, tra gli altri, a cura di Paul Ginsborg ed Enrica Asquer, Berlusconismo, Analisi di un sistema di potere (Laterza, 2011). Silvio Berlusconi, circonfuso della santità del «martire», è colui che la destra post-costituzionale, da oggi in poi, omaggerà nella guerra dei toponimi, al medesimo tempo soddisfatta di non dovere più fare i conti con la sua ingombrante persona e comunque gratificata del fatto che egli, concretante, ha legittimato pulsioni intimamente eversive della Costituzione.