Cultura

Il corpo ibrido di Istanbul

Il corpo ibrido di IstanbulAli Taptik, «Drift nothing suprising»

Mostre Una grande rassegna al Maxxi, incentrata sulla nuova onda degli artisti turchi, rivisita temi politici e scandaglia una metropoli abitata da continue contraddizioni

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

La mostra Istanbul. Passione, gioia, furore ha ridato pregnanza al Museo Maxxi di Roma (visitabile fino al 30 aprile prossimo). Artefice di cotanta arditezza intellettiva è il curatore Hou Hanru e la sua lucida visione del presente.
La rassegna da lui curata, insieme a Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli, è una sorta di attestato dello scontro socio-politico in atto, traslato in opere pulsanti da artisti che hanno un forte contatto con l’urbanità, con il disagio economico-culturale e con la conflittualità subliminale che la società turca, soffocata dalla politica reazionaria di Erdogan, ha accentuato negli ultimi anni.
Istanbul non è una metropoli come le altre: veloce e caotica come il suo traffico infernale è un miscuglio di comunità e di stili architettonici, di lingue e di orizzonti, di conflitti e di aspirazioni. Per molti versi, la mostra richiama in causa le due passate edizioni della Istanbul Biennial: la decima, Not Only Possibile But Also Necessary: Optimism in This Age of Global War, curata dallo stesso Hou Hanru nel 2007 e la nona edizione, Istanbul, curata da Vasif Kortun e Charles Esche nel 2005. Quest’ultima, una biennale osmotica, coraggiosa, anti-mainstream e affatto compiacente. Sia l’esposizione del 2005 che quest’ultima al Maxxi rimandano alla scoperta della città nella sua distrofia, tra una memoria schiacciante e una modernità accelerata, sfondando quello stereotipo che l’industria mediatica tenta di congelare in una palla di vetro, quasi come un souvenir. Quella stereotipia che la disbriga, ex-abrupto, in moschee, lokum e danza del ventre. Obliando o ignorando la sua storia dura e contraddittoria, cadenzata da conquiste civili e assurdi massacri delle minoranze, da diaspore continue e da galoppanti inflazioni economiche, dall’intrico tra azeri, armeni, curdi, ebrei, russi, da Ataturk e Erdogan.

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Ahmet Oghut, “Fikirtepe Quarter”

Dopo Gezi Park
Bisogna, inoltre, tener conto anche del fatto che l’arte contemporanea turca ha visibilmente scavalcato, negli ultimi decenni – per compattezza, potenza espressiva e aggregazione sistemica – il resto dei paesi europei. Basterebbe elencare le edizioni indimenticabili delle varie Biennali di Istanbul degli anni passati, distribuite nei luoghi più visionari della metropoli, i site specific estasianti nei budelli sconosciuti (alla massa di turisti), le nuove gallerie aperte, gli spazi pubblici temporanei e permanenti che hanno ridato un volto contemporaneo a una città imprigionata nella sua memoria.
In ultimo e non da poco, va segnalata l’importanza geopolitica che la Turchia rappresenta, specialmente in questo momento, nello scacchiere internazionale grazie anche alla ambigua politica del suo presidente.

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zeyno pekünlü: At the Edge of all Possibles. Foto di Mustafa Hazneci

L’incipit di Istanbul. Passione, gioia, furore è la protesta di Gezi Park (il giardino affacciato su Piazza Taksim, cuore politico cittadino fin dai tempi di Ataturk) del 2013, il cui bilancio fu di nove morti e oltre 8.163 feriti. E chi non ricorda la mobilitazione sociale capillare di quei giorni, il sostegno internazionale a distanza che attraverso i social si era diffuso in tutta Europa, i messaggi e le immagini che artisti, registi e intellettuali inviavano al mondo intero contro l’arroganza militare schierata da Erdogan?
Da qui il percorso espositivo si sviluppa sul processo di espansione e trasformazione metropolitana, sull’evoluzione della gentrificazione e speculazione edilizia, sui dispositivi di inclusione/esclusione comunitarie, sulle problematiche di identità culturale che fanno di Istanbul un fascinoso giocattolo in ibridazione e un luogo abitato da continue contraddizioni. Elettronica e melodia tradizionale, grattacieli di ghiaccio e minareti, shopping center e bazar, madrase e modernissime università, short e foulard neri si mixano nella contraddizione esacerbante di un presente rivolto essenzialmente al «new post-islamic power».

I sei capitoli progressivi su cui è architettata la mostra, visivamente scansionata dalla grafica di Extrastruggle, tentano di rispondere e riflettere su interrogativi esistenziali (Siamo pronti al cambiamento? È giusto combattere? È davvero necessario lavorare così tanto? È possibile una convivenza pacifica tra i popoli? Possiamo sperare in un futuro migliore?). All’interno del perimetro disegnato da queste domande, si staglia una rassegna vasta e multisensoriale in cui architettura, arte, cinema (nei prossimi mesi), riarticolano quel processo paradossale di surmodernità che si schianta sulle nuove metropoli abbrutendone contenuti e vivibiltà.

La calligrafia della resistenza
Il percorso di indagine dei quarantacinque artisti e architetti è ricucito dai lavori taglienti e ammalianti di Halil Altindere, mirabile artista turco di Mardin, da sempre concentrato sui problemi di marginalizzazione e sulle strutture di repressione dello stato turco. Le sue opere, politiche-poetiche, ammantate di visibile ironia scandiscono le sezioni della mostra al Maxxi, riassumendo tutte le sfaccettature. Le sue perturbanti sculture (quasi un richiamo al grande Duane Hanson) dislocate nelle varie sale, restituiscono in filigrana la moderna società turca. Nondimeno è lo strepitoso Wonderland (2013), un video musicale sul gruppo rapper Tahribad-i Isyan (Rebellion to Destruction) che solidifica l’attenzione intorno ai problemi di alienazione generazionale.
Ziz-zagando tra le sezioni, il film d’animazione Rose Garden with the Epilogue degli Extrastruggle introduce alle manifestazioni antiliberiste del 2013 e alla risposta autoritaria del governo. Il suo stile metaforico sintetizza e magnetizza un avvenimento che sarà il collante di tutta l’esposizione.

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Osman Bozkurt, “Post Resistance”

Alla nuova ventata di politica liberista e alla domanda: «Dobbiamo davvero lavorare così tanto?» l’artista Ali Kazma contrappone i video Resistance – Calligraphy del 2013 e The Butcher del 2009 che interagiscono fra corpo umano e controllo sociale, ma che unificano lavori molto diversi tra loro, come quello del calligrafo e del macellaio, o di Burak Delier che, in un video, racconta il tentativo delle grandi aziende, di costruire «comunità» attraverso le attività ricreative. Si intercalano poi le immagini fotografiche di Serkan Taycan che narra l’espansione dei quartieri residenziali intorno a Istanbul: un paesaggio di cemento incombe dalle colline. Il cambiamento urbano che ha travolto la città negli ultimi anni è segnato dal progetto del gruppo di architetti Superpool Mapping Istanbul. Con il progetto To built or not to built il Maxxi ha chiamato tre gruppi di architetti Pattu, So? e Architecture For All a realizzare negli spazi del museo, una serie di installazioni che possano investigare lo spazio pubblico della città

Un arcobaleno censurato

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Sarkis, “Rainbow”

L’installazione Two Rainbow di Sarkis (1938) colloca, dietro un arcobaleno al neon, una serie di foto di una famosa scala colorata nel quartiere di Findikli, simbolo della rivolta di Gezi Park, oramai distrutta dall’autoritarismo governativo. Nelle altre sezioni e alle ulteriori interrogazioni «rispondono» Fikret Atay, con il video Good Year del 2006 e Theorists del 2008, Inci Eviner col fimato Nursing Modern Fall, 2012, Oykut Ceren con Atlas of Interruptions del 2014, Ali Taptik, con la serie Kaza ve Kader, del 2004-2008 e altri artisti come: Zeyno Pekünlü, Osma Bozkurt, il gruppo Ha Za Vu Zu, Ceren Oykut, Mario Rizzi, Can Altay & Jeremiah Day. La mostra riserva anche alcuni appuntamenti cinematografici, il 30 e il 31 gennaio: La storia in movimento. Racconti del cinema turco dagli anni Sessanta ad oggi, a cura di Italo Spinelli, e vari workshop, in marzo, tenuti da artisti turchi.

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