Si intitola Il corpo della voce la mostra che, assieme a una costellazione di eventi tutt’altro che secondari , si inaugura oggi a Roma al Palazzo delle Esposizioni fino al 30 giugno prossimo. Ideata da Francesca Rachele Oppedisano e Anna Cestelli Guidi, promossa da Roma Capitale e organizzata dalla’Azienda speciale Palaexpo, con la collaborazione necessaria,anche, della Fondazione Musica per Roma, diverse partnership e il contributo, per i materiali audiovisivi che ne costituiscono un perno centrale di Rai e Rai Teche. Quale la scaturigine per un tema così diffuso, ma assai meno considerato di quanto sembri, e tantomeno dibattuto comunemente, al di fuori dei circuiti specialistici? Si tratta innanzitutto di tornare ai dati fondamentali. Della voce ci accorgiamo solo indirettamente, quando si manifesta e si sprigiona dal silenzio dei nostri corpi, che conservano il segreto dei suoni nel viluppo di tessuti, ossa e sangue. Oppure quando, accanto a noi, e in un contesto che comporterebbe una soglia di rumore socialmente accettabile e prevedibile di una persona la alza fastidiosamente. Oppure, ancora, quando qualcuno che nella vita la usa professionalmente, cantante o attore che sia, mostra una duttilità sinuosa o una potenza che ci sorprende e ci commuove. Quando il rombo di migliaia di voci assieme può essere minaccioso, perché indizio di un furore che sta per scatenarsi, o gioioso, perché riconduce a un’appartenenza. La voce che conosciamo meno è la nostra, quella personale di ognuno: tutti abbiamo fatto l’esperienza lievemente inquietante di riascoltare per la prima volta la nostra voce registrata e non riconoscerla, o trovarla bizzarramente storpiata, non «naturale».

ENNESIMO caso di dato «culturale» assunto come «naturale». Questo perché la voce che ci ascoltiamo risuonare dentro, sia la cavità orale o il complesso del nostro corpo, include appunto tutte le risonanze e gli armonici della nostra stessa carne. La voce, dunque, ha un corpo, come ci racconta il bel titolo scelto dalla curatrici, anche se alla fine ci appare solo, per dirla con Frank Zappa, come una massa di molecole d’aria messe in vibrazione. E il corpo ha una voce. Su tutto questo hanno riflettuto a lungo, con esiti spesso decisivi per le sorti della cultura contemporanea e della ricognizione antropologica le avanguardie artistiche del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, il «secolo breve» che breve non è stato affatto, per la quantità di ricerca che ha prodotto.

Cathy Berberian canta con il vestito da scena di Stripsody, collezione Berberian, Fondazione Paul Sacher, Basilea

PARTENDO dalla voce, dalla parola, dalla soglia della semanticità, e arrivando al rovesciamento dei ruoli, alla dicotomia incognita ma assai stimolante tra significato e puro suono. Basterebbe, a questo proposito, quanto riusciva a fare con la voce il grande Demetrio Stratos: il ricordo va a quando una filastrocca di monaci greci intessuta di suoni sibilanti ripetuta a velocità folle perdeva progressivamente il significato delle parole, per far assomigliare il flusso d’aria al frinire delle cicale nella calura estiva.

O, VICEVERSA,quando in un minuto, utilizzando solo suoni della voce che mimavano parodicamente le esclamazioni anglofile dei fumetti (gulp, gasp, sigh, roar), Stratos ricostruiva in una manciata di secondi un racconto intero, non utilizzando neppure una parola con una logica discorsiva,a solo puri suoni di parole che, di per sé, erano verbi inglesi. Dunque la voce è una potenzialità ancora da indagare a fondo, con pluralità di approcci, ed ogni sintesi non sarà mai risposta definitiva. A questo proposito, è il caso di ridare argomenti e parola diretta a Stratos. Raccontava tanti anni fa a un intervistatore il grande vocalist nato a Alessandria d’Egitto che fu voce prima dei beat Ribelli, poi degli Area, la formazione più sperimentale e colta del progressive rock in salsa italiana: «Oggi, con il declino della vocalità cantata, si tende a usare la voce come tecnica d’espressione. Io voglio spingere la mia ricerca sempre più in là, fino ai limiti dell’impossibile. Faccio esperimenti sui suoni più acuti e sono arrivato fino a 7000 hertz. Cerco di prendere tre o quattro note alla volta, di lavorare sugli armonici. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la tecnica di espressione, è più che altro una tecnica di controllo mentale, un microcosmo ancora da scoprire».

Carmelo Bene dietro le quinte del Teatro Quirino di Roma, 1981, foto Marcello Mencarini

PAROLE che valevano un quarantennio fa, e che valgono ancora ora, perché l’indimenticabile voce estrema degli Area (scomparso nel luglio del ’79) è uno dei protagonisti della mostra, assieme a due altre figure simbolo della ricerca vocale estesa ai limiti delle possibilità, a rappresentare una triade necessaria come architrave di ogni discorso sulla voce. Una è Il mezzosoprano Cathy Berberian, per cui scrissero Sylvano Bussotti, Hans Werner henze, Stravinkij, John Cage, ma che seppe anche penetrare con visionaria lucidità l’universo complesso della vocalità antica, a partire da Monteverdi, l’altro il regista e autore Carmelo Bene, epitome perfetta della «voce corpo» attoriale. Le due curatrici hanno reperito sul trio delle voci impossibili gran messe di materiali inediti: foto, video, partiture, corrispondenze, registrazioni. Nella mostra tre postazioni interattive realizzate da Graziano Sisto del Cnr di Padova, per comprendere come funzionavano quelle voci, e un’altra sezione scientifica, a cura di Franco Fussi, alla scoperta del mistero delle cavità orali che configurano la voce: perché abbia un corpo.