Visioni

Il corpo della rockstar Celeste nella genesi del nuovo millennio

Il corpo della rockstar Celeste nella genesi del nuovo millennio

Al cinema «Vox Lux» di Brady Corbet, scandito dalle musiche di Scott Walker

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 12 settembre 2019

A un anno dalla presentazione alla Mostra di Venezia, esce in sala – con un doppiaggio che ne azzera molto del potenziale purtroppo – uno dei migliori  film del concorso 2018, Vox Lux di Brady Corbet. Il regista è stato una scoperta del festival veneziano dove ha debuttato nel 2015 con The Childhood of a Leader, una radiografia del Novecento attraverso l’universo familiare di repressione e violenza in cui cresce il giovane dittatore. Ma l’«obliquità» rispetto ai suoi soggetti sembra essere per il trentenne Corbet il punto di partenza di una ricerca che nell’immaginario cerca lo strumento con cui rappresentare il mondo.

«VOX LUX» racconta in tre capitoli, tra il 1999 e il 2017, con la voce narrante (e straniante) di Willem Dafoe, l’ascesa di una giovanissima cantante, Celeste – da ragazzina Raffey Cassidy (che interpreta anche la figlia di Celeste), da adulta Natalie Portman, entrambe perfette come tutti gli attori – che entra nello star system a quattordici anni, a poco più di trenta è già decaduta ma con fama ancora planetaria, nevrotica e fragile come chi non conosce altra vita che palcoscenico e celebrità. Il manager (Jude Law) la segue fin dall’inizio come la sorella maggiore che scrive (segretamente) le sue canzoni. Tra loro c’è una relazione ambigua di amore/odio/dipendenza (Che fine ha fatto Baby Jane?) in cui si aggroviglia la gelosia verso l’uomo e i sogni di diventare famosa dell’altra, la bella di casa mentre Celeste era sempre stata la sorellina piccola.

MA IN QUESTA STORIA che guarda alla memoria cinematografica scivola qualcos’altro. Celeste diventa famosa perché sopravvive a una strage, uno di quei massacri a scuola nell’America delle armi che fanno più morti di una guerra. L’arma le trafigge il collo, dolori per tutta la vita e un collare che diventerà il suo segno distintivo. Contro la paura e il dolore scrive – in realtà lo fa la sorella – una canzone che quando alla prima persona della sua esperienza sostituisce il «noi» diviene l’inno di una comunità ferita. Una hit, la stella è nata.
Le cicatrici fisiche e intime però rimangono lì, il corpo di Celeste, il corpo della rock star baudrillardianamente è quello della nazione, di un millennio appena scoccato che ha già perso l’innocenza, forse mai avuta, icona globale, caricatura, sofferenza, parole vuote del potere, razzismo sprezzante, arroganza; lei che nella musica metal del padre di sua figlia, ormai adolescente come le sue fan rivedeva il compagno di scuola killer, mentre scopre all’improvviso che la patina delle sue canzoni pop fatte «per non pensare» è ispirazione per massacri terroristici.

Vox Lux si chiama lo show futurista che celebra il ritorno di Celeste in cui Portman – magrissima – nella tuta glitterata è un cupo Ziggy di oggi senza futuro, senza uno spazio planetario a cui guardare. Solo lo schermo bianco mentre le ragazzine impazziscono, in un 21esimo secolo la cui genesi e rinascita è il terrore e il suo specchio, la sicurezza, l’ignoto che arriva all’improvviso – come non pensare alla strage di Manchester durante il concerto di Ariana Grande? – cieco, furente, demoniaco. Del resto: per soldi e successo Celeste non ha venduto, eterna Faust, l’anima al diavolo?

SCANDITO dalla musica di Scott Walker (scomparso lo scorso marzo), Vox Lux continua quanto iniziato da Corbet col film precedente: la storia che qui è le Torri gemelle, gli attentati, un occidente che scopre in sé la guerra, quella brutalità senza volto spostata sempre nell’altrove, nel sentimento ignoto del presente, di una memoria ancora in divenire. Più controllato, anche narrativamente del suo esordio, come se le potenzialità lì espresse avessero trovato la giusta alchimia, nel melodramma impastato di suoni scrive il nostro tempo. È un cinema profondamente politico quello di Corbet che della realtà non cerca la semplice «rappresentazione» ma si interroga sulla materia, sulla grana (è girato in 35 millimetri) delle sue immagini. È lì che prende forma l’inquietudine, è lì nell’alternanza sui display di Celeste tra «prega» e «preda» che si afferma il sentimento della contemporaneit

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