Editoriale

Il copione dell’ipocrisia italiana

Datagate - Usa C’è un vezzo antico e insopportabile, quando in Italia si comincia a discutere seriamente dei nostri rapporti con l’America, con la sua intelligence e con le derive spesso pericolose che […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 24 ottobre 2013

C’è un vezzo antico e insopportabile, quando in Italia si comincia a discutere seriamente dei nostri rapporti con l’America, con la sua intelligence e con le derive spesso pericolose che essa assume.
Il copione in questi casi prevede che entrino in scena il poliziotto buono e quello cattivo. Solo che per il ruolo del buono la fila è lunga, lunghissima: ministri, sottosegretari, presidenti, parlamentari di maggioranza e d’opposizione, direttori di giornale, autorevolissime penne e fini dicitori. Mentre a fare il poliziotto cattivo ci si ritrova sempre in pochi.

Il sottosegretario Minniti, persona competente e attenta, chiede al Copasir e ai suoi membri di tranquillizzare il paese. Non è questo il nostro compito, e soprattutto io non mi sento affatto tranquillo. «L’assenza di evidenze», unica obiezione opposta dal governo italiano alla preoccupazione che le nostre telefonate abbiano subito lo stesso destino di quelle francesi, mi ricorda un film già visto qualche anno fa, quando autorevoli giornali e il lavoro di investigazione del Parlamento europeo rivelarono il sistema delle extraordinary renditions come consuetudine in uso nella Cia per dar la caccia ai terroristi. Si disse anche allora (governo, Copasir, maggioranze e opposizioni…): non ci sono smoking guns, nessuna pistola fumante, nessun cadavere nel salotto di casa. Dunque non ci crediamo. La fine della storia è nota. Ma non è stata d’insegnamento per nessuno.

C’è un dettaglio sul quale i pompieri del governo italiano oggi sorvolano: le modalità di spionaggio su scala planetaria organizzato dai servizi di Washington si applicano, per esplicita disposizione del governo americano (l’executive order n.12333) soltanto ai «non US citizens», cioè agli stranieri. Ovvero tutti coloro che sono non tutelati dal rigido scudo delle leggi americane (che non ammettono intrusione nella privacy se non dietro ordine motivato di un giudice).

Negli Stati Uniti il dibattito sul necessario punto d’equilibrio tra sicurezza nazionale e diritti inviolabili dei cittadini è ben più esplicito e meno ipocrita della parodia che ne viene riproposta a casa nostra. Ed è un dibattito, per ironia, assolutamente trasparente: le disposizioni che autorizzano la più grande operazione di intercettazione di dati telefonici e telematici nel mondo nei confronti dei «non americani» è riassunta in un documento pubblico, non classificato, accessibile negli archivi della Casa Bianca.

Ci sarebbe stato materiale per discutere, e a lungo, con John Kerry, su limiti, forzature e benefici di un sistema di spionaggio che, per legge americana, divide l’universo mondo in due categorie: gli US citizens e gli altri. Ci sarebbe da ragionare sull’effettiva utilità di un sistema di raccolta massiccia di dati, la cui scrematura non sembra così rapida ed efficace da poter evitare che gli attentati di matrice terroristica, anche in forme spesso artigianali e improvvisate, continuino a ripetersi. Ci si dovrebbe confrontare sull’urgenza di fissare un punto di rispetto, una soglia di reciproca decenza che valga per i diritti di tutti, a prescindere dal loro passaporto. Ma è una discussione che pretende libertà di giudizio e franchezza istituzionale, non solo una schiera di poliziotti buoni e distratti.

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