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Il conflitto tra proprietà pubblica e bene comune

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Privatizzazioni Dai soggetti pubblici «padroni» all’appartenenza collettiva e diffusa

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 21 gennaio 2016

Il regime giuridico della proprietà pubblica, fagocitando le categorie «demanio» in una logica tutta economico-finanziaria, non soltanto non ha costituito un freno al flusso dei processi di privatizzazione dei beni pubblici, ma addirittura, (come evidenzia Paolo Berdini, il manifesto, 10 gennaio “Saldi al via”, e l’intervista di Valentina Porcheddu, il manifesto, 12 gennaio a Salvatore Settis), ha costituito la base per una vera e propria svendita.

La vigente disciplina codicistica, relativa alla circolazione dei beni pubblici, ha costituito il fondamento di leggi (legislazione speciale) che, a partire dal 2001, hanno disciplinato la cartolarizzazione di svariati beni pubblici.

Diverse leggi hanno abilitato l’autorità amministrativa, il ministro dell’economia e delle finanza, ad adottare atti amministrativi, determinando veri e propri processi di sdemanializzazione.
Si continua a parlare di declino della categoria giuridica del demanio, ma è evidente che è ora di parlare di limiti fisiologici del modello demaniale, fondato sugli elementi caratterizzanti il rapporto proprietario, nell’ambito del quale il binomio sovranità statuale-proprietà pubblica, può discrezionalmente decidere di cambiare titolo e destinazione del bene (processi di sdemanialiazzazione-patrimonializzazione ma anche procedimenti concessori) o semplicemente di conservare nel tempo una funzione sociale del bene distante dalle evolute esigenze delle comunità.
In questo senso, la cornice dei principi costituzionali non ha dimostrato di possedere capacità di resistenza tale da impedire che la tipicità del rapporto proprietario, ben radicato tra Costituzione e regole codicistiche, prevalesse sul rapporto funzionale teso a soddisfare i diritti fondamentali, e insieme le fasce di utilità derivanti dal godimento dei beni comuni.

La questione demaniale

Il rapporto che lega l’amministrazione pubblica al bene demaniale è un rapporto di natura proprietaria fondato su poteri di godimento, disposizione ed utilizzo del bene. Tale natura del rapporto non ha impedito che proprio i poteri di tutela, puntualmente previsti dal diritto positivo vigente (artt. 823, comma 2 c.c. e 825 c.c.), si ridimensionassero nel diffuso orizzonte delle privatizzazione.

Tali processi hanno determinato, secondo alcuni, la trasformazione della categoria giuridica dei beni pubblici in beni a destinazione pubblica, con un consequenziale svilimento dell’originaria funzione sociale dei beni.

Il modello della proprietà pubblica non è sempre adeguato alla tutela dell’interesse generale, sia per la discrezionalità del legislatore, ma anche della stessa amministrazione, di riconoscere e determinare la cessazione della demanialità dei beni.

In questo senso, la volontà del legislatore, o meglio del governo, diventa onnipotente rispetto al regime dei beni che avevano in origine garantito l’orientamento del bene verso finalità di interesse generale.

La sovranità del mercato

La sovranità legislativa, piuttosto che la sovranità popolare, ed il carattere escludente ed autoritario della demanialità hanno consentito e consentono al legislatore di poter orientare i beni verso finalità di ordine mercantile, sottraendoli al godimento delle comunità.

Il fil rouge di un programma di sinistra altermondialista non può che ripartire della categoria giuridica dei beni comuni, quale baluardo per fronteggiare l’esproprio dei diritti fondamentali.
Attraverso i beni comuni, ci si sradica dal rapporto proprietario di natura esclusiva, consentendo alle comunità di accedere e fruire dei beni. I beni pubblici, attraverso i beni comuni, non vanno più intesi come beni di proprietà di soggetti pubblici, ma piuttosto come beni di appartenenza collettiva e diffusa.

Le istituzioni pubbliche sono coinvolte nella gestione dei beni comuni, in quanto enti esponenziali di interessi generali, non in quanto proprietari e sono titolari di un potere dispositivo limitato sul bene che non consentirebbe di orientarlo al mercato, attraverso gestioni di natura privatistica.

Si tratta di un programma politico forte che non è pensabile di realizzarlo soltanto con interventi legislativi (da circa un decennio il progetto della commissione Rodotà langue negli uffici del Parlamento), stante la sfiducia nella democrazia della rappresentanza, o in istituti di mediazione della sovranità statuale quali il referendum e le proposte di iniziativa legislativa popolare.

Tuttavia, neppure è immaginabile l’esodo dalle istituzioni. Le strade oggi, se non si vuole rimanere nel pantano delle strategie da ceto politico, sono quelle tese a intercettare e frequentare il conflitto, l’antagonismo, ma anche l’agonismo, ovvero, in una dimensione locale e di prossimità della democrazia, sperimentare, così come si sta facendo in diverse realtà locali, pratiche dal basso di auto rappresentazione e autogestione.

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