«Accostandoci con reverenza a tali preziose reliquie, dobbiamo anzitutto cancellare dalla nostra immaginazione tutto ciò che le epoche successive hanno legato a questa favola davvero grandiosa, dimenticare completamente come Ovidio e Nonno si smarriscano ampliandone lo scenario all’universo. Siamo confinati in un luogo circoscritto e raccolto, come si addice alla scena del teatro greco; è lì che il prologo ci invita». Così esordisce J. W. Goethe presentando, nel 1823, la traduzione dei frammenti superstiti accanto a congetture sulla trama del Fetonte, dramma composto da Euripide negli anni venti del V sec. a. C. ma perduto prima della trasmissione all’età medievale. L’opportunità è data dalla ricostruzione, inviatagli in omaggio dall’amico filologo Gottfried Hermann, di ampi segmenti della tragedia individuati già alla fine del Settecento su due fogli del codex Claromontanus. Sulla pergamena raschiata dei due fogli, ritagliati da un più antico codice euripideo per restaurare i guasti del pregiato codice neotestamentario del VI secolo, era stato trascritto un passo della Prima epistola ai Corinzi di Paolo. Nei primi anni dell’Ottocento il testo svanito viene in parte reso visibile con reagenti chimici, finché il saggio di Hermann non induce il grande poeta, da sempre ammiratore di Euripide, a misurarsi direttamente con la scoperta filologica: integrando la traduzione dei nuovi versi con i pochi excerpta già noti da citazioni antiche prova così a delineare, negli anni della vecchiaia, la versione euripidea della «große Fabel» consacrata dalle Metamorfosi di Ovidio e da una straordinaria fortuna nelle arti figurative.

Ma dietro l’entusiasmo le sue parole tradiscono anche un’ombra di delusione; ben comprensibile, se si considera quanta parte del disegno generale ancora ci sfugga. Nell’immaginario artistico e letterario moderno il mito di Fetonte rinvia al paradigma del giovane di smodata ambizione, punito con la morte quando il fulmine di Zeus scongiura il rischio che la sua inesperienza nel guidare il carro solare provochi una conflagrazione dell’universo. Dopo aver appreso dalla madre Climene di essere nato non dal re degli Etiopi Merope ma da Elios, Fetonte si reca dal dio e chiede, a riprova della paternità, di condurre in sua vece la quadriga che illumina la terra. La consueta interpretazione della vicenda oscilla tra la punizione esemplare di un’audacia trasgressiva e il tipico pessimismo antico sul destino dell’eroe: l’epilogo tragico del legittimo desiderio di sottrarsi ai vincoli della fisicità. Gli autori latini contemplano l’una e l’altro: in Ovidio (Metamorfosi 1,750-2,400) leggiamo il fallimento della sua smania di subentrare al potere cosmico del padre; Seneca (De providentia 5,10-11) ne muta il giudizio ed enfatizza, con l’esempio del generosus adulescens, come la virtù debba salire per vie insicure attratta, anziché intimorita, da vertigine e rischi. Dare una fisionomia alla tragedia di Euripide (uno dei drammi frammentari più cospicui, con oltre 330 versi recuperati) è dunque una sfida stimolante non solo per gli studiosi del teatro attico, ma anche per chi esplori come la ricezione occidentale ne abbia declinato o alterato i motivi.

Ma quali aspetti della vicenda affiorano dal palinsesto e quali le divergenze dalle versioni più note? Punto focale della trama è la decisione del vecchio Merope di far sposare Fetonte con una dea e lasciargli poi il potere regale. Il giovane, turbato dalla rivelazione materna sulla sua nascita, in un primo tempo resiste alle ambizioni del padre putativo e ne contrasta decisamente il progetto. Deciso a verificare la sincerità di Climene, su sua indicazione si reca poi alla vicina dimora di Elios per chiedere al dio di adempiere la promessa fatta al momento della loro unione: esaudire un desiderio del figlio che ne sarebbe nato. Il fulcro dell’azione è pertanto il conflitto generazionale, ma ignoriamo l’identità della futura sposa: la stessa Afrodite, secondo l’ardita ipotesi di Wilamowitz; oppure, più plausibilmente, una divinità minore, forse una delle Eliadi. Lo suggerisce il ruolo delle sorellastre di Fetonte nella versione più diffusa del mito: alle lacrime delle Eliadi, che ne piangono la morte sulle rive del Po e vengono trasformate in pioppi, già Eschilo riferisce l’eziologia dell’ambra, anche se questo risvolto della storia esige di ambientare la caduta nel remoto Occidente, dove ha origine la resina preziosa associata dai Greci al favoloso Eridano.

In assenza della parte centrale della tragedia, non è facile immaginare cosa accada prima dell’excerptum preservato dall’anonimo trattato Del sublime (15,4): dieci versi estratti dal racconto di un messaggero e relativi alla partenza di Fetonte. L’autore intende mostrare come Euripide, privo di disposizione innata alla grandiosità, sappia esprimerla quando forza la sua natura in senso tragico; una tecnica illusiva carica di empatia traspare proprio dalle esortazioni e dai divieti di Elios nel cedere le redini a Fetonte: sembra quasi che «l’anima dello scrittore balzi anch’essa sul carro e voli insieme ai cavalli, condividendone i rischi», perché «se non si fosse lasciata trasportare, correndo alla stessa velocità di quelle imprese celesti, mai avrebbe concepito immagini simili». Manca qualsiasi accenno al disastro e l’audace avventura viene piuttosto assimilata all’esperienza del poeta, saldando idealmente i ruoli di personaggio e autore. Non è chiaro, tuttavia, quanto il discorso indugiasse sui dettagli della rotta fra gli astri, elaborati doviziosamente nelle istruzioni di Elios narrate da Ovidio (Met. 2,63-83 e 126-149) e da Nonno di Panopoli (Dionisiache 38,222-290).

Nel dramma euripideo la corsa di Fetonte viene fermata subito, nelle vicinanze delle stalle orientali del Sole, ma il conflitto tragico si estende ben oltre la sua morte: lo rivela il segmento testuale del terzo episodio preservato dal secondo foglio del Claromontanus. Recuperato e trasportato al palazzo di Merope, dove intanto fervono i preparativi per le nozze, il corpo ancora fumante viene nascosto dalle ancelle nella stanza del tesoro su ordine di Climene, che teme per la propria sorte se il marito scopre ciò che gli ha sempre taciuto. Ma il dolore per la morte del figlio, cui si mescola il biasimo per il dio che ha rovinato entrambi, entra in dissonanza con l’imeneo che un coro di vergini guidato da Merope intona nel frattempo. L’azione precipita quando il sovrano, avvertito del fumo che proviene dall’interno, rinviene il corpo di Fetonte folgorato e dà sfogo alla pena in una monodia di cui restano esigue tracce.

Pur fra tante incertezze spiccano temi presenti in altri drammi di Euripide, a cominciare dalla paternità distruttiva degli dèi che generano figli con le mortali: l’incauta promessa del dio, il ragazzo alla ricerca della propria identità, la donna che ne cela il vero padre, la contiguità fra rito nuziale e destino di morte. Goethe ritiene che i toni luttuosi dell’usignolo, nel quadro del risveglio della natura all’alba, offuschino la gioia per le nozze di Fetonte già nel canto d’ingresso del coro, prefigurando il lamento materno; e in realtà la catastrofe sembra attivata dalla tyche, anziché dalla hybris umana. Al dramma familiare non mancano connotazioni politiche, ma i successivi sviluppi – Fetonte come paradigma del monarca irresponsabile – o la lettura filosofica che ne fa il simbolo di un’avventura spirituale sono di là da venire.

Frammenti emersi dalla vasta perdita del teatro euripideo – i titoli noti agli antichi superano di quasi cinque volte quelli conservati – restituiscono dunque la sinopia della dinamica familiare all’origine del disastro: «il padre terreno desidera formare il figlio sul proprio modello» osserva ancora Goethe, «quello celeste deve distoglierlo dal farsi uguale a lui». Nel testimoniare come il Fetonte, benché estraneo alla selezione canonica, fosse una tragedia ancora letta e copiata quasi mille anni dopo la sua prima messinscena, il palinsesto ci incoraggia così ad apprezzare come Euripide, astenendosi da scenari grandiosi, sia pago di sondare la sfera umana e le sue illusioni. Era questo, in sostanza, l’invito di Goethe.