Il Condor tra Italia e Bolivia
Intervista Parla Gustavo Rodriguez Ostria, storico e ambasciatore boliviano in Perù
Intervista Parla Gustavo Rodriguez Ostria, storico e ambasciatore boliviano in Perù
«Vede? questo è uno dei documenti della Cia, desecretati, che prova il trasferimento di Luis Stamponi nell’ambito dell’operazione Condor». Lo storico Gustavo Rodriguez Ostria, ora ambasciatore boliviano in Perù, mostra al manifesto carte importanti, frutto di un paziente lavoro d’archivio in diverse parti dell’America latina. Serviranno alle parti civili che, oggi e domani, affrontano il capitolo boliviano del processo Condor, in corso a Roma. Si chiamava Piano Condor la rete criminale a guida Cia con la quale le dittature sudamericane degli anni ’70 e ’80 regolavano i conti con gli oppositori, scambiandosi mortiferi favori senza frontiera. A farne le spese furono anche molti cittadini di origine italiana, come l’argentino Luis Stamponi e la madre Mafalda Corinaldesi, di cui si parlerà domani anche alla Fondazione Basso in un incontro dal titolo «Bolivia: la lotta del Che e dell’Eln di Luis Stamponi», coordinato da Jorge Ithurburu, di 24 marzo onlus, e a cui partecipa anche Ostria.
Lei ha dedicato molte ricerche allo studio delle guerriglie latinoamericane, in particolar modo quella del suo paese, prima e dopo la presenza del Che Guevara. Come s’inserisce la storia di Luis Stamponi?
La sua figura sintetizza gran parte della lotta sociale e rivoluzionaria in America latina a partire dai pieni anni ’50. Stamponi nasce in Argentina ma è di origine italiana, sua madre è Mafalda Corinaldesi. Da studente è in prima fila nelle contestazioni e si iscrive al Partido Obrero, di orientamento trotskista. Conosce Guevara a Cuba, nel ’63 e discutono le differenze di linee, tra l’idea foquista del Che, il suo progetto di accendere fuochi di guerriglia a livello continentale e la visione più legata alla tradizione marxista, al partito, all’insurrezione. Poi torna in Argentina e partecipa alla guerriglia guevarista di Ricardo Masetti, tra il ’63 e il ’64. Viene arrestato alla frontiera tra Argentina e Bolivia mentre sta portando armi, evade e si lega sempre di più alla visione del Che. Nel ’66 va di nuovo a Cuba insieme a un gruppo di studenti argentini – uomini e donne – che ha reclutato. Vengono allenati lì. Ho raccolto diverse testimonianze. Vogliono andare in Bolivia, ma non fanno in tempo. Il Che viene ucciso a ottobre del ’67. Gran parte di quel gruppo costituirà però la direzione dei principali gruppi armati che si opposero alla dittatura argentina. Altri, come Stamponi, andarono poi in Bolivia per riorganizzare l’opposizione armata. Lì viene ferito durante una rapina e va di nuovo in carcere. Sarà poi scambiato con alcuni ostaggi tedeschi, rapiti dai guerriglieri di Teoponte, nel ’79. Va di nuovo a Cuba, poi viaggia da clandestino tra il Cile e la Bolivia. Nel ’73, dopo il golpe di Pinochet si trasferisce in Argentina, dove agisce il Coordinamento rivoluzionario di organizzazioni cilene, uruguayane e argentine. Tra il ’74 e il ’75 si trova a Lima. Viene individuato dalla polizia. Il 28 settembre del ’76 viene catturato e il mese dopo viene trasferito in Argentina nell’ambito del Piano Condor. Lo portano in uno dei campi di concentramento clandestino, Automotores Orletti. Quando quel lager venne chiuso a seguito della fuga di due detenuti, pensiamo sia stato trasferito in Uruguay insieme ad altri detenuti. Quel che è certo è che la madre andò a cercarlo in Bolivia. Quando tornò, disperata, in Argentina, telefonò ai famigliari dall’Hotel Esmeralda, il 19 novembre. E poi scomparve anche lei.
Come storico e come diplomatico, lei ha anche partecipato ai passi principali del suo paese per chiedere al Cile uno sbocco al mare. A che punto è la questione?
Tutto è cominciato con la Guerra del Pacifico, tra il 1879 e il 1884. Un periodo in cui, per il Cile, confluiscono due obiettivi: da un lato la sua politica di espansione e dall’altra l’affermazione come stato nazione, che ha un fronte interno con la conquista dei territori degli indigeni mapuche, e uno esterno con Bolivia e Perù, territori ricchi di risorse, soprattutto salnitro e concime, prezioso per produrre fertilizzantie richiesto in Europa. Noi abbiamo perso la guerra e così 120.000 km quadrati di territorio, e l’accesso sovrano al mare. Fino al 1904 il Cile ha controllato questo territorio militarmente e politicamente, ma senza averne la proprietà effettiva. In quell’anno, un settore della classe dominante boliviana firmò un trattato con il Cile nel quale cedeva quel territorio in cambio di uno sbocco non sovrano al mare: libero transito, ma previo pagamento. La nostra storia marittina è così stata cancellata. Da allora, fra alterne tensioni, vi sono state diverse offerte di dialogo e di trattativa da parte cilena. Dopo la Seconda guerra mondiale, gli stati hanno istituito entità giuridiche come la Corte internazionale di giustizia. Nel 1948, gli stati americani tra cui il Cile e la Bolivia hanno firmato il patto di Bogotà, deputato a risolvere le controversie tra paesi affinché non si traducano in conflitti violenti. Nel 2013, ci siamo rivolti alla Corte.
Durante il primo governo di Michelle Bachelet le cose sembravano ben avviate, poi cos’è successo?
Il presidente Evo Morales ha inaugurato un nuovo modo di tessere relazioni basato sulla logica indigena secondo la quale gli opposti sono complementari e per questo non devono separarsi. Con questo spirito ha visitato diverse volte il Cile, mantenendo la nostra richiesta di uno sbocco sovrano al mare, ma cercando un accordo fraterno fra le parti. Ha proposto un’agenda in 13 punti, il sesto riguardava il negoziato marittimo. Pensavamo che le cose potessero andare avanti, ma poi tutto si è interrotto con l’arrivo dell’altro presidente, Sebastian Pinera. Il Cile ha cominciato ad affermare di non avere nessun debito con la Bolivia. Nel 2013 abbiamo deciso di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia: non per tornare sull’originaria decisione storica che ci ha portato a perdere il nostro territorio, ma per chiedere al Cile di tener fede alle diverse offerte di negoziato e di sedersi al tavolo a trattare. Ma il Cile dice che abbiamo compiuto un atto di inimicizia e ci accusa di voler mettere in questione il trattato del 1904. Gli accordi di Bogotà non lo consentirebbero, la Corte non è competente per dirimere questioni precedenti al 1948, né noi lo vogliamo. E per questo non consideriamo pertinente neanche l’accusa di voler perturbare l’ordine giuridico chiedendo alla Corte di dichiararsi competente a decidere. Vogliamo soloche la Corte segnali al Cile che ha l’obbligo di negoziare con noi: in buona fede e in un tempo prudenziale uno sbocco sovrano al mare. Una decisione che porterebbe molti vantaggi non solo all’economia boliviana e al nostro popolo, ma anche a quella cilena, perché consentirebbe scambi commerciali proficui, il nostro è un paese ricco di risorse che servono al Cile. L’integrazione del Sudamerica richiede pace e tranquillità, che si ottengono solo quando si riparino situazioni ingiuste. Noi diciamo: nel secolo scorso, il Cile ci ha negato l’accesso al mare, ora vuole negarci l’accesso alla Corte.
In questo periodo le destre sono nuovamente all’attacco in America latina, è finito il buon vento per i paesi progressisti e socialisti?
Nel nostro continente, c’è una destra che non tollera altre opzioni politiche, tantopiù in presenza di nuovi attori che hanno ottenuto rappresentanza. A differenza degli anni ’70 quando, almeno in Bolivia, era la classe operaia a condurre il gioco, ora sono emersi altri soggetti: le donne, gli indigeni, contadini e soggetti che non avevano avuto voce. In questo processo di innovazione, mentre nel secolo scorso era l’Europa a dettare i cambiamenti dal punto di vista marxista, ora il vento del cambiamento arriva dall’America latina. Una situazione insopportabile per i poteri forti, che si stanno coordinando e mettono in campo una strategia comune.
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