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Il complicato rapporto dei figli con il bucato

Il complicato rapporto dei figli con il bucato

Habemus Corpus Si sono laureati, hanno fatto l’Erasmus, i campi di volontariato estivi, i viaggi Interrail per l’Europa, si sono sposati, hanno avuto figli. Dopo tutte queste esperienze di vita indipendente pensi che abbiano imparato a gestire le incombenze. E invece no

Pubblicato circa un mese faEdizione del 15 ottobre 2024

Si sono laureati, hanno fatto l’Erasmus, i campi di volontariato estivi, i viaggi Interrail per l’Europa, il campeggio, hanno condiviso casa con gli amici durante l’università, sono andati a vivere da soli, si sono sposati, hanno avuto figli. Dopo tutte queste esperienze di vita indipendente pensi che abbiano imparato a gestire le incombenze del quotidiano come le pulizie, la spesa, la cura della casa. Errore. Basta una visita prolungata dalla figliolanza e scopri che sono incapaci di governare il rapporto con i propri panni sporchi, letteralmente.

A cena con amici e amiche ho raccolto le confidenze sulle esperienze conflittuali di alcuni genitori con le lavatrici dei loro figli. Sono, questi ultimi, uomini e donne sui trentacinque anni, tutti conviventi e con prole. È un campione che va da nord a sud, dalla Svizzera all’Italia, composto da coppie miste nel senso che uno viene dagli Usa, l’altra da Losanna, uno da Milano, un’altra da Napoli e tutti con professioni invidiabili.

Scena tipo. La madre arriva in visita per alcuni giorni pensando di divertirsi con il nipotino e trova: un portabiancheria in bagno, uno in camera dei genitori, uno della stanza del bimbo, uno in terrazza e tutti scoppiano di biancheria da lavare. Pantaloni, salviette, lenzuola, mutande, maglioni, felpe, jeans, calzini, tovaglie, magliette, golfini, gli scuri allegramente mischiati con i chiari e i colorati, gli stracci con la lana, i tappetini con i reggiseni.

D’ACCORDO, pensano i genitori in visita, cominciamo dividere e lavare, così diamo una mano. Iniziano a smistare i capi in base a colore, tipologia e temperatura. Una parte di loro si immedesima in Isabelle Huppert che, nel film Home di Ursula Meier (2008), annunciava alla famiglia, un marito e due figli, che stava per far partire la lavatrice gridando «Faccio i bianchi», «Faccio gli scuri». La Huppert gestiva questa girandola indossando scarpe dal tacco assassino, un simbolico che suggeriva una perfetta e felice adesione a quel compito, oppure il fatto che anche quando fai il bucato devi piacerti.

Le mie confidenti, invece, sono in breve tempo abbattute dalla fatica ma, soprattutto, devono ingegnarsi per riuscire a lavare e asciugare sei o sette bucati in due giorni. Visto che in molte case contemporanee hanno tolto i termosifoni per sostituirli con il riscaldamento a pavimento, non c’è più nemmeno un radiatore a supportare il superlavoro dello stendino o dell’asciugatrice che notoriamente, oltre a consumare montagne di energia, impiega alcune ore a riconsegnarti il bucato asciutto, ma stazzonatissimo.

CHE FANNO dunque le genitrici? Si aiutano con il metodo delle nonne, stirano il bucato umido, azione utilissima soprattutto se fuori piove.
Quando hanno finito, tornano a casa distrutte, incredule e speranzose. Sperano che i figli siano loro grati e che abbiano imparato a non accumulare più così tanti panni sporchi. Speranza mal riposta. La volta dopo ogni portabiancheria traboccherà come prima.

Tutte le mie confidenti si fanno la stessa domanda. Perché questi figli maturi, realizzati e autonomi non si fanno il bucato più spesso? Perché si cambiano due o tre volte al giorno? Perché non sanno o non vogliono organizzarsi con le lavatrici? Pensano che il loro sporco non li riguardi?

Risposte io non ne ho. Posso solo avanzare un suggerimento. Smettete di fare il bucato ai vostri figli, e smettete quando vivono ancora con voi perché solo mettendo il naso nel proprio sporco e nella propria puzza si impara poi a lavare, stendere, piegare, riporre. Sullo stirare possiamo soprassedere. Se proprio vogliono, che girino stropicciati.

mariangela.mianiti@gmail.com

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