Il colonialismo e i Caraibi, per conoscere la tragedia del «Negrocene»
Scaffale «Un’ecologia decoloniale» di Malcolm Ferdinand per Temu edizioni
Quando inizia il movimento sociale che lotta per liberare il pianeta Terra dall’ingiustizia ambientale? Nel libro Un’ecologia decoloniale. Pensare l’ecologia dal mondo caraibico (Tamu edizioni, pp. 430, euro 21), Malcolm Ferdinand riconosce che esso nasce nel XVI secolo con il marronaggio nel continente americano: «la pratica degli schiavi che sono fuggiti dalle piantagioni rurali o dalle officine urbane per tentare di (soprav)vivere nelle foreste delle montagne vicine o nelle zone più interne, in un ‘al di fuori’ del mondo coloniale».
Nasce, dunque, da una radicale affermazione della libertà e dal rifiuto dell’assoggettamento altrui. Quella istanza di fuga dall’asservimento continua a essere attiva nel mondo contemporaneo, anche se formalmente libero dalla schiavitù coloniale, in quanto le esperienze costruite dagli schiavi in lotta misero in discussione tutta la violenza con cui erano stati governati e subordinati, compresa quella esercitata nei rapporti con l’ambiente e le altre forme di vita. La fuga dei cimarroni riuscì spesso a consolidarsi anche grazie al tipo di legame non predatorio costruito con la terra e la natura, in contrapposizione alla logica coloniale di conquista di ogni forma di vita definita e usata come risorsa a vantaggio delle classi ricche.
MALCOLM FERDINAND, ingegnere ambientale presso l’University College di Londra e ricercatore del Centre national de la recherche scientifique presso l’Irisso, Università Paris-Dauphine, pone al centro dell’analisi sui rapporti socioecologici le lotte e i processi di liberazione, guardando, in particolare, a quanto è accaduto con la Conquista, la tratta atlantica, il sistema delle piantagioni e l’inizio della globalizzazione commerciale nell’area dei Caraibi.
Non a caso, nel testo tradotto da Paolo Stella Casu, egli propone la nozione di «Negrocene» per definire questo lungo processo di ridefinizione coloniale dei rapporti socioecologici sul pianeta, fondati sulla costrizione di una parte degli esseri umani e non umani nella stiva del mondo, ridotti, appunto, a «negri», ossia a gruppi umani considerati inferiori e razzializzati. Queste popolazioni sono state relegate all’abitare coloniale, che, dal 1492, «cancella l’altro, colui che è diverso e che abita in un altro modo», creando una Terra senza mondo, ridotta a magazzino di materie utili per la produzione di merci, tendenzialmente omogenea, in cui la differenza può essere tollerata solo se trasformabile in una cosa da vendere, altrimenti, se si afferma come progetto altro, non compatibile con la logica capitalistica e di dominio, da reprimere e asservire.
L’ANALISI DI FERDINAND è avvincente. Essa sviluppa i concetti sinteticamente in diciotto capitoli, a cui si aggiunge un corposo prologo e la prefazione di Angela Davis. In quest’ultima, la militante afroamericana evidenzia come la necessità di un’ecologia decoloniale sia attiva oggi come lo è stata lungo l’intera modernità capitalista. Davis fa riferimento «all’impatto devastante del pesticida clordecone sulle popolazioni della Martinica e di Guadalupa» e al fatto che lei non ne avesse mai sentito parlare, nonostante si tratti di un composto chimico usato per la coltivazione delle banane. In questo intreccio tra produzione di cibo, malattie e territori coloniali Davis riconosce un collegamento sistematico attorno al quale ruota una parte consistente di questo libro: «l’intersezione tremenda tra il capitalismo razziale e un’aggressione sistematica all’ambiente che non risparmia neanche gli umani».
La proposta di Ferdinand è quella di spezzare questa aggressione mettendo al centro, non solo dell’analisi, ma dell’iniziativa politica, i corpi. Corpi come naufraghi nella nave negriera dell’ecologia imperiale e che, al contrario, affermano sé stessi, «tentano di emanciparsi, cercando dignità, cercando giustizia».
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