Cultura

Il codice segreto dell’immagine

Il codice segreto dell’immagineParticolare della Venere di Urbino di Tiziano

Saggi L'iconologia secondo lo studioso francese Daniel Arasse in "Non si vede niente", per Einaudi

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 30 agosto 2013

Si è abituati a pensare che un dispositivo visivo, per esempio un quadro, mostri tutto ciò che è visibile in esso e che anzi serva proprio a far vedere. Che l’immagine sia presentata in modo naturalistico (rassomigliando a quel che è visto e regolato dall’occhio in modo naturale) o che invece sia simbolica (con riferimento a convenzioni che trasfigurano un significato) non dovrebbe mutare molto la situazione, perché in entrambi i casi c’è sempre qualcosa da vedere, anche se è molto diverso da quel che si vede «letteralmente». Teoricamente e anche storicamente, l’immagine «trasfigurata» è stata usata per permettere di mostrare cose non visibili (come gli enti immateriali) e le astrazioni (come le idee) oppure cose non mostrabili (come quel che provoca pudore).
L’immagine «naturalizzante» non è meno varia, dato che può essere illustrativa e documentaria (come capita nei giornali e nei libri) e descrittiva, narrativa e didascalica, (come capita un po’ ovunque); può tentare di sollecitare e perfino di ricreare in chi guarda particolari condizioni dell’esperienza visiva, naturale (come in parte fu la tecnica prospettica) o astratta o formale o onirica (come fu in certe intenzioni dell’arte del Novecento). E alla fin fine, se tutto ciò dovesse apparire troppo cervellotico, ci si potrà sempre appellare al senso comune: se ci si dà da fare per mostrare qualcosa, deve esserci qualcosa da vedere.
Ma allora che vuol dire la sconsolata asserzione: Non si vede niente, così importante da dare il titolo al libro di Daniel Arasse proposto di recente per Einaudi? È provocatoria, comica, paradossale nel richiamare il buio o la nebbia che circonda l’immagine? Tanto più che il libro (pp.170, euro 26) scorre attraverso sei immagini limpidissime dell’arte moderna; sei Descrizioni, si affretta a rassicurare il sottotitolo, quasi a parare il dubbio che nel volume ci possa essere assai poco da leggere! Al contrario bisognerebbe rassicurare il lettore che nessuno dei sei capitoli è davvero una descrizione e che comunque il descrivere, magari proprio un’opera, non è mai lo scopo principale di queste pagine. S’è parlato di immagini, in effetti, e non di quadri, sebbene sia norma nell’arte moderna che le une passino attraverso quelli. E che per Arasse tra immagine e quadro si debba applicare una qualche distinzione, lo dimostra il capitolo «Il pelo della Maddalena», che non fa riferimento ad alcuna specifica realizzazione pittorica (e che così si intitola perché i lunghi capelli della Maddalena sarebbero la trasposizione visibile del pelo pubico, cioè di quel che non si può far vedere né si vede).
Lo spiega la prefazione di Claudia Cieri Via, svelta ma esauriente nel riproporre l’originale percorso dello studioso francese, che in circa trent’anni cercò di ridefinire finalità e forma dei discorsi sulle arti (molti di questi studi sono stati tradotti in Italia nell’ultimo decennio, dopo la morte del critico nel 2003, tra cui Il dettaglio. La pittura vista da vicino, il Saggiatore 2007 e Il soggetto nel quadro, ETS 2010); quella prefazione spiega perché l’ambito di intervento sia quello dell’iconologia, benché Arasse mostri insofferenza verso gli iconologi che ricercano solo nei testi i motivi di un’immagine e altre volte li dileggi accusandoli di cecità. La parola iconologia va presa forse nel senso più elementare, di discorso sull’immagine o di senso dell’immagine. Del resto Arasse, l’avesse detto solo per sprezzatura, non si sentiva in tutto e per tutto neppure uno storico dell’arte, quando se ne volesse malamente restringere il compito al solo posizionamento dell’opera nel tempo.
Questo libro, dunque, dedicato a ciò che non si vede, nasce anche da certe inquietudini sui metodi e sui compiti della critica e della storia dell’arte, sebbene poi vi intervenga in modo quasi indiretto. La tesi di fondo, a rischio di semplificare, può essere ricondotta a questa idea: che nella rappresentazione figurativa moderna esistano delle opere in cui il vero oggetto della pittura è il non vedere o il cercar di vedere senza riuscirci o riuscirci con grande difficoltà.
Il dipinto allora mostrerebbe personaggi che si sforzano di guardare o che palesemente non vedono. Nell’Adorazione dei Magi (1564) di Pieter Bruegel il Vecchio, il Magio sarebbe inginocchiato davanti al neonato Gesù non per gesto di adorazione ma per scrutarne il sesso nascosto tra le gambine; così nel dipinto di Tintoretto Marte e Venere scoperti da Vulcano (c. 1550), ci sarebbe l’intenzione comica di mostrare un dio così distratto dalla bellezza della sua sposa da non accorgersi che Marte si è nascosto sotto il tavolo, nonostante l’elmo sporga vistosamente e il piccolo cane ai piedi del letto gli abbai contro vigorosamente; ancora, nell’Annunciazione (1470-1472) di Francesco del Cossa, una piccola misteriosa lumaca posta sulla cornice inferiore del dipinto starebbe a richiamare la cecità davanti all’apparizione della divinità; anche la Venere di Urbino (1538) di Tiziano presenterebbe un meccanismo contraddittorio della visione: la mano della dea cela allo sguardo e nello stesso tempo tocca il suo sesso, così come nel riquadro posto alle sue spalle la giovane, con la testa chinata dentro il casssone nuziale, ne tocca il fondo senza vedere niente; e infine anche Diego Velázquez avrebbe voluto, proprio in Las Meninas (1656), predisporre una finzione in cui si intuisse la volontà di mostrare una scena e un fatto improbabili, e cioè che il re e la regina si lasciassero dipingere mentre posano per il pittore; dei capelli delle «Maddalene» si è già detto.
Che nella pittura moderna ci sia una  vena spiritosa e drammatica, di raffinata autoironia e insieme di ammonimento sulla non banalità della visione, è un’idea suggestiva che nelle argomentazioni di Arasse prende corpo e credibilità, anche perché la «lettura» del quadro si avvale spesso di un’accurata ricognizione non solo delle condizioni materiali dell’opera ma anche della continuità con altre opere e altri artisti. Se un soggetto presentasse in maniera isolata tale dimensione critica del vedere, si potrebbe pensare a singoli colpi di ingegno, mentre invece il suo ripetersi e riprodursi fa quasi pensare alla trasmissione di un codice segreto tra chi ha il potere di suscitare la visione e l’immagine. L’autore non suppone neppure questa consorteria segreta, affidando invece il processo a una spiegazione ben più teorica: l’artista pensa attraverso l’immagine anche quel campo astratto in cui l’immaginazione non riesce ad assumere un’evidenza oggettiva di figura, per cui il pittore è immune dal luogo comune secondo cui l’immagine, giacché c’è, ha sempre qualcosa da mostrare.
Se l’ipotesi non dovesse convincere c’è sempre e comunque la narrazione di Arasse a catturare. In modo inusuale, forse perché i saggi erano stati pensati per una trasmissione televisiva verso la fine del secolo scorso, il ragionamento è variamente drammatizzato. Ora come una specie di flusso di coscienza del lavoro di ricerca e di sistemazione dei dati, ora come un dialogo in cui due studiosi si affrontano nel fornire la propria interpretazione dell’opera, ora come il racconto di uno storico dell’arte che in visita a un museo viene assalito da perplessità, ora come una lettera rivolta a una collega colta in fallo. E se queste piccole messinscene rendono la lettura piacevole, servono soprattutto a rendere fruibili degli azzardi interpretativi che nello stile del saggio scientifico potrebbero facilmente risultare inopportuni. Uno degli aspetti affascinanti e gradevoli del libro, infatti, è dato dalla narrazione stessa della ricerca che crea una rete di fonti e informazioni, spesso inaspettate e inusuali, capaci di illuminare la presenza di una figura, di un colore, di un oggetto, insomma di un dettaglio da cui far partire la reinterpretazione dell’immagine: e si ha l’impressione che lo sguardo si allarghi in una dimensione enciclopedica nella quale immaginazione e curiosità permettono delle preziose scorribande, con cui cercar di fondare certi nodi storiografici delle arti figurative e della pittura in particolare.
Un tale procedere, che potrebbe sembrare non sufficientemente rigoroso, andrebbe spiegato senza fare ricorso a considerazioni di tipo metodologico. Viene per questo in aiuto André Gide in Fatti di cronaca (Sellerio 1978), che per dar conto dell’esistenza di gesti criminali totalmente immotivati metteva in relazione la curiosità e l’immaginazione così: un esperto cacciatore di fringuelli, nel posizionare le trappole, era solito eseguire vistosi movimenti intorno ad essa. Infatti, non era l’esca contenuta nella trappola ma il fatto che qualcuno si desse da fare intorno ad essa a stimolare la curiosità dell’uccello tanto da cadere nella trappola. E ne ricavava questo finale: che per essere curiosi di guardare cosa c’è non è necessario che ci sia qualcosa da vedere.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento